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Recensione a cura di...
~ LUCA FERDINANDI
È una serie che mi ha lasciato un po’ interdetto. Non riesco a inquadrarla del tutto. Più che altro, faccio fatica a comprendere alcune dinamiche interne, le dinamiche della polizia e il modo in cui questo mondo viene raccontato. Quello che mi risulta difficile da afferrare è il sistema di cameratismo che permea tutto: un sistema quasi oppressivo, elitario (verso il basso), e in certi momenti persino "fascista" nei suoi meccanismi. Questo sistema sembra trascinare i personaggi in un vortice di dolore, disturbi psicologici e fisici. La domanda che mi pongo è: davvero funziona così nella realtà? Oppure ci troviamo di fronte a un racconto esasperato, una versione enfatizzata per rendere drammatiche le vicende dei celerini?
Quello che emerge da questa serie – e che già si percepiva nel film di Stefano Sollima – è il rapporto tra i poliziotti e gli individui con cui si scontrano. Parliamo di persone ai margini della società, spesso trattate come reietti, che si muovono contro le forze dell’ordine con una violenza quasi animale. E le forze dell’ordine, dal canto loro, sono viste come i servi di uno Stato invisibile, di un sistema distante e superiore. Non condivido appieno questa visione e, soprattutto, non mi convince l’estremizzazione di certi aspetti.
Detto questo, ACAB – La serie è un prodotto che, comunque, funziona. A livello narrativo, le varie trame si intrecciano bene e arrivano a conclusioni che, nel complesso, reputo dignitose. Alcuni archi narrativi, anzi, mi hanno piacevolmente sorpreso per come sono stati chiusi. Ma c’è una cosa che proprio non mi ha convinto: il linguaggio della serie. In molte occasioni mi è sembrato troppo radicato in una cultura cameratista e figlia di estremità politiche, quasi a voler ritrarre un ambiente esclusivamente tossico. Questo mi porta a chiedermi se l’intento della serie sia un’accusa verso questo sistema o semplicemente una scelta narrativa per drammatizzare.
Io, purtroppo (o per fortuna, fate voi), non conosco bene come funziona il mondo della polizia, dell’ordine pubblico o delle procure. Non è un ambiente che vivo ogni giorno. L’unica volta che sono entrato in una caserma è stato quando mi hanno rubato il portafoglio. Quindi mi chiedo: ma davvero le cose stanno così? E, soprattutto: questi individui sono così turbati a causa del lavoro che fanno? Se la serie vuole dirci che queste persone hanno bisogno di aiuto, allora sta funzionando. Ma se invece tutto questo è solo un espediente narrativo per drammatizzare delle trame che ricalcano il film, allora mi sembra che ci siano dei limiti.
Dal punto di vista atmosferico, la serie “tiene botta” rispetto al film di Sollima. Certo, si vede che qui c’è un budget maggiore, e si nota anche un’attenzione ai dettagli più moderna. Però, pur essendo un prodotto seriale, emergono alcuni limiti. Per esempio, il tono cupo e sospeso, con silenzi e nevrosi sottintese, funziona fino a un certo punto. Dopo tre episodi tutto diventa ripetitivo. Questi momenti di tensione, queste atmosfere sospese, sono efficaci una, due, tre volte. Ma alla quarta rischiano di annoiare. E quando una serie diventa prevedibile, è sempre un problema. Forse il problema sta anche nella durata. Con sei episodi da 45-50 minuti, la narrazione a volte sembra eccessivamente tirata. Probabilmente ACAB non è una serie da vedere tutta d’un fiato: meglio dosarla nel corso della settimana, anche per coglierne le sfumature senza farsi assorbire troppo dal ciclo di negatività che permea ogni episodio.
Un altro aspetto che mi ha lasciato perplesso è quello dei dialoghi. Non tanto per quello che i personaggi dicono – in fondo le linee di dialogo funzionano – ma perché, a volte, non si capisce benissimo quello che dicono. In questo senso, il personaggio che soffre di più è Mazinga, interpretato da Marco Giallini. Giallini ha un timbro di voce molto particolare, che è diventato il suo marchio di fabbrica. Di solito funziona, ma qui, a tratti, non si capisce niente. Ci sono momenti in cui la sua bocca sembra "impastata", e questo rende difficile seguire alcune scene. A chi dare la colpa? A Giallini stesso, che gioca troppo sul suo modo di parlare? Oppure al fonico o al mix audio, che non hanno saputo lavorare bene sulle sue battute? Non voglio accusare nessuno, ma è un dubbio che mi è venuto spontaneo.
Senza entrare troppo nel territorio degli spoiler, devo dire che la sequenza finale mi ha lasciato perplesso. Da un lato, carica la tensione in modo importante. Ma dall’altro, si perde nel nulla. C’è uno scontro tra i poliziotti e una folla inferocita, una scena che parte bene, ma si risolve in modo confuso. Vediamo questa folla – inizialmente composta da decine e decine di persone – ridursi inspiegabilmente a gruppetti di dieci o venti persone, che attaccano i poliziotti uno alla volta, una volta spinti all’angolo. Mi è sembrata una scena poco credibile. Poi arriva il momento dei fuochi d’artificio, legati alla celebrazione del nuovo anno. Un’immagine che dovrebbe essere potente, ma che, personalmente, ho trovato un po’ forzata e meta-narrativa. La serie cerca di chiudere con una nota visivamente simbolica, ma, almeno per me, non funziona del tutto.
Nel complesso, ACAB – La serie è un prodotto che consiglio agli amanti del genere. È una storia che pone tante domande, alcune scomode, altre meno. Certo, non sono domande esistenziali, ma riflessioni di una persona che, come me, non conosce davvero il mondo che la serie vuole raccontare
Quindi, la mia domanda finale è: voi cosa ne pensate? Aspetto le vostre opinioni, perché questa è una serie che, per essere capita fino in fondo, merita di essere discussa.
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