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Recensione a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Chi, come me, ama Sergio Leone, ama – in base alla proprietà transitiva Eastwood.
Chi, come me, è cresciuto con l’Intrepido ed ha amato l’Ispettore Callaghan e la sua 44
Magnum, ama Eastwood.
Chi, come me, pensa che il cinema sia in primo luogo un modo per raccontare storie
attraverso le immagini, ama Eastwood.
Appurato dunque che amo Eastwood, come recensire il suo forse ultimo film?
In realtà, è abbastanza semplice se ci limitiamo a guardare la regia: un film ben fatto,
senza sbavature, il bel compitino di un alunno al primo anno della Naba.
Ma Eastwood non è questo.
Eastwood è l’epico regista di Million Dollar Baby.
Voglio dire, mica ciufoli.
Ecco che necessariamente la recensione prende a questo punto una china pericolosa.
China perché tutto ciò che dirò da ora in poi ha un andamento discendente; pericolosa
perché il rischio è di ergersi a giudice senza averne le competenze.
Parto dunque da una mia idea di come debba essere strutturato un legal thriller.
In primo luogo, appare indiscutibile che la finzione cinematografica ti permette di creare
dei mondi paralleli dove qualunque regola del mondo fisico viene sovvertita.
Lo so, lo so, anche voi state pensando a Ritorno al Futuro.
Bene, nulla pertanto vietava allo sceneggiatore de Il giurato n. 2 di ambientare il processo in un mondo immaginario dove esistevano regole immaginarie.
Oppure di costruire una storia nella quale il processo fosse un elemento accidentale della narrazione.
Eh no, il nostro sceneggiatore ha deciso che il processo doveva essere lo snodo cruciale della vicenda perché dal processo nasceva il dilemma “Verità vs. Giustizia”.
Ora, soppravolerò sull’utilizzo in una sceneggiatura della frase più banale, inutile e
scontata che si sia mai sentita in un legal thriller: “La verità non è sempre Giustizia”.
Vi prego, vi prego.
Sparatemi al cuore o cancellate lo sceneggiatore dalla Wiriters Guild Association.
Pur volendo sorvolare su simili sconcezze, alcuni elementi vanno posti in evidenza.
Sin dai tempi di Sir Alfred, è stato chiaro che il cardine dei “gialli” (l’albero madre che ha
partorito i legal) sta nel creare la suspense.
Cos’è la suspense lo sappiamo tutti no?
E’ quello stato d’animo per cui noi sappiamo quello che il protagonista non sa.
Ne Il Giurato n. 2, alla terza scena, il protagonista ci comunica di essere stato sul luogo del delitto e probabilmente di essere l’omicida.
Woooow….
Stavo quasi per alzarmi.
Mi hanno tenuto incollato al posto due elementi: lo sguardo assassino di mia sorella e la curiosità su come sarebbero riusciti ad arrivare alla fine alimentando un minimo di pathos.
Beh non ci sono riusciti.
Il film procede lento, con degli errori clamorosi tipo la procuratrice che entra nella stanza in cui abitano il giurato e sua moglie e dovendosi sedere su una sedia dietro la quale ci sono almeno tre foto del proprio giurato, non lo riconosce.
O l’autopsia del medico legale che ignora completamente la presumibile frattura alle ossa del bacino esistenti sulla vittima.
Uffi direte voi che pignolo.
Avete ragione, avete ragione.
Veniamo all’approfondimento psicologico dei personaggi.
Insomma, è un film che affronta un tema importante: i protagonisti saranno dilaniati dai
dubbi, dall’incertezza.
No.
Il protagonista maschile praticamente se ne frega altamente della sorte dell’imputato per tutto il processo – mai manifestando una qualche intenzione di assumersi la
responsabilità.
Ah no, aspettate.
Va dal proprio tutor negli alcolisti anonimi che è anche un avvocato e a quest’ultimo
confessa i propri dubbi.
L’avvocato giustamente lo pone davanti al bivio: se confessi sei finito.
E lui? Ci pensa su? Vive qualche giorno di dramma interiore che magari sfoga
nervosamente con la moglie incinta.
Manco per sbaglio.
Prende atto e decide di seminare dubbi nella giuria.
Ecco le discussioni della giuria sono la parte che più mi ha creato imbarazzo.
Ovviamente, io sono cresciuto con Henry Fonda e La Parola ai giurati, però ragazzi, vi
prego – nel 2024 – evitiamo gli stereotipi tipo gang, seconda chance, redenzione.
E’ tutto così banalmente yankee.
Ad ogni buon conto, anche durante questa fase del processo manca qualsivoglia
approfondimento psicologico dei personaggi salvo il racconto strappalacrime di vicende personali che li hanno portati ad assumere una determinata posizione.
D’altro canto perché sia possibile dare spessore psicologico ai personaggi, è
indispensabile avere una gamma espressiva che va oltre “L’uomo con il cappello” –
“L’uomo senza cappello”.
Si, si, sto citando Leone ed il suo giudizio su Eastwood.
Però quelle due espressioni aprivano un mondo di esformazioni (ieri ho scoperto cosa
significa e da ora in poi lo utilizzerò come il cacio etc, etc).
Gli attori de Il giurato n. 2, che dire, hanno la capacità espressiva di boh.
Mi viene difficile trovare un paragone adeguato.
Diciamo che non ti portano dentro le emozioni.
E questa affermazione ci porta ad affrontare l’ultima questione: il tema del film.
L’idea di fondo che muove Eastwood consiste nel rappresentare la dicotomia tra Verità e Giustizia.
Ora, a parte che nel film ciò cui si arriva non è la Verità (se mai esiste) ma la Verità
processuale, tutta la narrazione appare indirizzata a far emergere la Verità “storica”.
Solo che, improvvisamente, per effetto di una sola battuta (Questo processo per me si può concludere in due soli modi: o con una condanna o con un annullamento) detta da un giurato, il protagonista mette da parte la propria sete di verità e vira su una giustizia.
Giustizia che Eastwood o lo sceneggiatore risolve nel lasciar prevalere il proprio egoismo piccolo-borghese addirittura sul destino di un altro uomo – ingiustamente (questo sì) accusato.
Tutto questo, sia chiaro, senza un minimo dramma interiore.
Riassumo e chiudo?
Film mediocre, struttura narrativa carente, errori clamorosi dal punto di vista della
ricostruzione processuale, tema centrale affrontato in modo sconclusionato e
approssimativo.
Regia?
Ho detto: lineare, carina.
Tipo il compito di un allievo al primo anno della NABA.
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