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Recensione a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Se io fossi un giornalista chiederei a Salvatores se abbia mai indagato le ragioni per le quali Fellini decise di non trasporre il soggetto di Napoli New York in una sceneggiatura.
Se io fossi un giornalista chiederei a Salvatores a che età abbia letto “Cuore” di De Amicis ed in particolare il racconto dagli Appennini alle Ande.
Se io fossi un giornalista chiederei a Salvatores quale suo bisogno interiore abbia inteso soddisfare con questo film.
Se io fossi un giornalista chiederei a Salvatores se l’impiego di due bambini come protagonisti poteva essere evitato o se era coessenziale al dipanarsi della narrativa.
Purtroppo io non sono un giornalista e comunque dubito mi sarebbe stato permesso di porre tutte queste domande.
Tuttavia, le risposte del regista mi avrebbero forse aiutato a comprendere il senso di un’operazione che sin dalla prima scena rende palese la sua patinata finalità commerciale.
Buio, rumore di qualcosa che crolla; appare sul video, il cui colore ricorda quello delle vecchie foto ingiallite, un signore che se la prende con i poveracci che, pur conoscendo i rischi, abitavano nel palazzo ormai divenuto macerie.
Dopo qualche secondo stacco su una bambina che affiora dalle macerie; zoom lento sugli occhi, splendidi, della bambina.
Ovvio che ti emozioni.
Ovvio che vorresti prendere quella piccolina e stringerla al petto per rassicurarla.
Purtroppo, l’interpretazione dei due bambini è l’unico elemento positivo del film: convincenti, spontanei, mai eccessivi.
Due rivelazioni.
Ho sbagliato però.
C’è un altro elemento positivo: la fotografia.
No, non quella di New York.
Quella di Napoli.
Una Napoli crepuscolare che fatica ad uscire dall’economia di guerra e ad adattarsi alla nuova situazione in cui gli americani sono partiti.
Una Napoli in cui la fotografia di un tramonto diviene poi quella della notte buia nella quale i due ragazzini “abbordano” il Transatlantico Viktory.
Da qui in poi è il trionfo degli stereotipi e dei luoghi comuni: gli italiani che puzzano; gli italiani che non possono far ingresso nei locali Wasp; gli italiani che cercano sempre e comunque di fregare il prossimo.
Gli italiani che, quando uno di loro finisce nei guai, fanno fronte (lo so, sto citando) e combattono i nemici esterni.
Tutto anche vero per carità.
Solo che non serviva un film.
Bastava appunto leggere Dagli Appennini alle Ande o il libro di Gianantonio Stella.
O vedere Mamma Lucia con Sophia Loren.
Tutto già scritto, tutto già detto, tutto già raccontato.
In questo caso però la banalità del male (si, si, non è un caso che richiami Hanna perché è male questa prassi del cinema attuale) viene resa ancor più insopportabile da alcuni clamorosi errori.
Il primo (giuro che mi stavo alzando) è inserire nella colonna sonora (siamo nel 1949) la versione che Bruce Springsteen fece nel 2006 di un pezzo molto molto risalente (Pay my money down).
Ora io dico, è sufficiente una breve lettura delle origini del brano per comprendere che è un canto popolare degli afroamericani poi “sistemizzato” da Linda Parrish.
Cosa c’entra con Little Italy?
Soprattutto cosa c’entra Trieste con New York?
Eh si, perché surprise surprise, nonostante gli stanziamenti milionari, le scene ambientate a New York sono state girate a Trieste.
E nemmeno la vera Trieste ma una Trieste ricreata con l’intelligenza artificiale.
Va bene d’accordo, direte voi.
Trama banale, errori storici, interpreti bravi ma… Favino? Favino è bravo?
Pierfrancesco Favino, già. Colui che “i grandi personaggi italiani devono interpretarli gli italiani” (ossia lui); colui che ha reso Benedetto Craxi detto “Bettino” una macchietta; l’indimenticabile protagonista de l’Ultima Notte d’Amore in cui riesce ad avere la credibilità che potrei avere io interpretando
Hannibal Lecter.
Come recita Favino?
E come volete che reciti?
Gigioneggia.
Tutto faccine, ammiccamenti, sorrisini.
Zero profondità psicologica, zero resa drammatica salvo che in una scena in
cui il pianto è talmente finto da far piangere chi guarda lo schermo.
Un guitto.
Ok, ok.
Un guitto di talento.
Ed indubbiamente di talento è la regia di Salvatores.
Riuscire a valorizzare due giovani attori quali protagonisti di un film non mi sembra poco.
Certo, la macchina da presa è tutta primi e primissimi piani, con alcuni campi medi nelle scene di massa ma francamente a me questo tipo di riprese lineari, senza fronzoli volte ad esaltare il narrato piace.
Ho sbagliato: piacerebbe.
Perché qui manca proprio il narrato.
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