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Recensione a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Ho sei anni.
Io e i miei familiari siamo seduti a tavola.
Manca solo mio padre.
Oggi è una bella giornata.
Ho ricevuto la mia prima pagella.
Tutti voti alti.
Quando l’ho mostrata a mia madre le ho visto brillare gli occhi.
Ma non è il suo parere che mi interessa.
Mio padre arriva.
Si siede.
Mia madre comincia a servire la pasta al forno.
Ovviamente partendo dal capofamiglia.
Poi tocca a me.
“Hanno consegnato la pagella di Massimiliano”.
Mio padre annuisce.
Mia madre mi incoraggia con un impercettibile cenno del capo.
Mi alzo.
Prendo la pagella da sotto il tovagliolo dove l’avevo riposta per paura di stropicciarla.
Con timore, con gli occhi bassi la porgo a mio padre.
Lui volta solo leggermente lo sguardo verso il foglio di carta.
Torna a dedicarsi alla pasta al forno.
“E’ stato bravo, no?” – dice mia madre.
Lo sguardo di mio padre è di ghiaccio.
“Ha fatto solo il suo dovere”.
Silenzio. Dissolvenza.
Ecco, questo è il mio trauma infantile.
Quello che ha creato il mio demone peggiore: il bisogno di riconoscimento.
Ed è lo stesso identico bisogno di riconoscimento di cui necessita Dakota Johnson in Una notte a New York.
Bisogno che il proprio padre, l’unica figura genitoriale presente nella sua vita, riconosca la sua esistenza.
Questo bisogno porta Dakota a “costruire” un ricordo tanto vero per lei quanto immaginario per la sorella più grande di undici anni.
E’ questo bisogno che porta la protagonista femminile del film a cercare in uomini più vecchi quell’amore che lei non ha mai ricevuto.
Sia chiaro non parliamo di sesso né di amore maturo, consapevole, equilibrato.
Parliamo di tuo padre che guarda sotto il letto per vedere se ci sono i mostri; di tuo padre che impugna la spada illuminata per affrontarli e sconfiggerli i mostri.
Questo racconta Una Notte a New York.
Racconta di come non si debba negare l’amore ai bambini, racconta di come la comprensione, la condivisione, l’empatia abbiano poco a che fare con la conoscenza.
Comprendere gli altri dipende da quanto riusciamo ad aprire il nostro IO ai flussi di coscienza altrui; di quanto ascoltiamo senza pregiudizi chi, anche casualmente, decide di aprirsi con noi.
Va detto però che Una Notte a New York tutto può definirsi tranne che un film melenso, trito, retorico.
Il film è fastidioso, disturbante, urticante.
Tutto questo grazie ad un immenso Sean Penn.
Nelle parti del tassista-confidente che rivela a Dakota alcune tristi verità su noi, esseri umani di sesso maschile.
Noi uomini che teniamo più all’apparenza che alla libertà; noi uomini che vogliamo le donne belle, avvenenti ancorchè stupide; noi uomini che pensiamo principalmente al sesso.
Obietta Dakota: “Non tutti sono così. Ci sono anche delle brave persone”.
Sean Penn: “Poche. Molte meno di quante pensi”.
E lui, Clark o Vinnie o Mikey - a seconda che vogliamo pronunciare il suo vero nome od uno di quelli che vorrebbe aver avuto – appartiene al novero delle cattive persone.
Dei maschi che quando la moglie ingrassa e rifiuta il proprio corpo e rifiuta di “adempiere ai propri doveri coniugali”, la sostituiscono con una dicianovenne.
E così via.
Una, due, cento donne che si susseguono e che vengono lasciate quando usano la parola amore.
Si, si.
Il tema vero del film è: cosa significa amare?
Amare, secondo Sean Penn, significa sentire la mancanza di “Una calda giornata d’estate”.
Amare, secondo Dakota, significa ricevere il riconoscimento che spetta a tutti noi come esseri umani.
Uscirete tristi ed arrabbiati dal cinema dopo questo film.
Molti di noi però, come ho fatto io salendo in macchina, ricorderanno il famoso verso di quella canzone di Springsteen: “Ehi that’s me”.
Si, siamo noi, gli esclusi, gli abbandonati, gli emarginati.
Quelli che solo adesso stanno rimettendo insieme i cocci di una vita che qualcuno ha rotto tanti, tanti anni fa.
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