Recensione - \"Le occasioni dell'amore\", di Stéphane Brizé

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Recensione a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

Devo smetterla.


Di drogarmi di emozioni dico.


Devo smettere di cercare nei film le risposte ai miei perché esistenziali.


Altrimenti corro il rischio di venire atterrato ogni volta da precisi uppercut al mento.


Sapete cosa significa venire colpiti da un uppercut al mento?


Che vai a dormire.


Fine.


Il che, se mi trovassi a casa, andrebbe pure bene.


Ma devo recensirli ooops analizzarli i film e mica posso lasciarli a metà.


Devo smetterla dunque.


Dovrei.


Oggi però no. Forse domani.


Dopodomani. Sicuramente (cit.).


Dovrò, alla fine.


Tempo futuro.


Quanto in là so mica dirlo.


Certo che gli sballi ravvicinati del 3 tipo (cit.) diventano sempre più complicati.


Ad esempio, nel film che ho visto oggi, la protagonista (una incredibilmente efficace e

misurata Albra Rohrwacher) pronuncia la seguente battuta:


Sono contenta di averti visto. Di non avere avuto paura di farlo”.


Ma come?


E’ la frase che da mesi aspetto pronunci Beatrice.


Solo che io non ho parlato con il regista de Le occasioni dell’amore.


E quindi? Come fa questo tizio (che è anche lo sceneggiatore) a scrivere proprio quella

frase lì.


Una frase che mi evoca ricordi, richiama alla mente sensazioni che pensavo di aver

cacciato in fondo, in fondo all’anima?


Per chi non lo sapesse, sussurro un piccolo segreto all’orecchio.


Il cinema è questo.

Il cinema rende universale un fatto, una sensazione, un’emozione che io, voi, tutti

pensiamo sia esclusivamente nostra.


E questo ci stupisce ma ci rende anche parte di qualcosa: di una comunità, di una società di poeti estinti;


Permette a noi spettatori di uscire dalla sala dicendo: “Per fortuna qualcuno mi

comprende” oppure “Non comprendo affatto l’agire e le reazioni dei protagonisti”.


E dunque, Le occasioni dell’amore soddisfa questo bisogno inconsapevole che

accompagna il nostro ingresso in una sala?


Per rispondere devo porvi, come di prassi, delle domande:


a)si può raccontare una storia d’amore senza un lieto fine?


b)si può raccontare la depressione senza sfociare nel compassionevole o

nell’irragionevolmente drammatico?


c)si può credere che esista l’amore assoluto.


Le occasioni dell’amore racconta che si può.


Il film racconta che un uomo (in questo caso un attore di cinema, un superbo Guillam

Canet) in piena crisi esistenziale cerca di reagire al senso di inutilità ed abbandono che

piano piano lo sta travolgendo.


Come fa: isolandosi.


Lasciando alle sue spalle il mondo patinato del cinema, mandando all’aria il suo esordio in teatro e respirando.


No, scusate. Imparando a respirare.


A prendersi del tempo per riflettere e capire.


Il film racconta anche la storia di una donna il cui quotidiano, apparentemente perfetto, la vede in realtà ai margini della vita di tutti coloro che la circondano: il marito, la figlia

adolescente, gli alunni cui insegna pianoforte.


E anche questa donna (Alba Rohrwacher appunto) cerca di reagire.


Lei non si isola.


Lei prova a recuperare un passato che sembra oramai lontano ed irraggiungibile.


Il passato di Alice è Mathieu.


L’Amore di Alice è Mathieu.


Per Alice, Mathieu non è stata solo una storia.


E’ stato l’alfa e l’omega della sua vita, lo spartiacque esistenziale, il suo demone ed il suo angelo salvatore.


E qui inizia o meglio riprende una storia d’amore fantastica.


Fantastica perché il suo dipanarsi fino ad un certo punto vive solo di sguardi, di imbarazzi, di silenzi, di lentissimi avvicinamenti (il ballo del matrimonio della migliore amica di Alice appare intessuto ad ogni passo di una magia infinita ed avvolgente).


Poi la svolta: i due si amano.

E qui, permettetemi, una digressione: che necessità abbiamo di corredare l’amore con la rappresentazione per immagini dell’amplesso magari accompagnata dai gridolini di

piacere di lei?


Anche no, grazie.


Il punto più basso del film che sembra condurre verso un finale banale e molto

mainstream.


Molto americano.


Solo che i francesi sono i francesi e con il piffero che copiano quelli al di là del mare

(capita anche di pensare che al di là del mare, cit, sorry).


E di nuovo, allora, riavvicinamento ed fino al termine del film che, sia chiaro, non rivelerò.


Voglio invece rivelare un altro segreto: i film lenti hanno un loro fascino.


Il fascino sta nella misura dei gesti, nella loro appropriatezza, nella loro funzionalità

rispetto a ciò che vogliamo rappresentare in quella scena.


Accade così che poco meno di due ore di film trascorrono come quando sei di fronte alla persona che ami e sorseggi con lei un thè allo zenzero e curcuma.


Niente può distrarti.


Perché i tuoi occhi hanno un solo fuoco: lei o, in questo caso, lo schermo.


Vogliamo parlare degli attori.


Parliamo degli attori.


A me piace il modo di recitare di tutti coloro che non appartengono all’italica stirpe

(scusate sono esterofilo ma giuro che il 14 sono a Roma e chiedo l’indulgenza plenaria).


Per dimostrare il dolore, quello profondo mica serve piangere.


Basta uno sguardo, una leggera inclinazione del capo. O anche il nulla. Anche uno

sguardo fermo inespressivo può rendere chiaro che dentro stai morendo.


Di conseguenza la recitazione di Guillam Canet viene promossa a pieni voti.


Così come viene promossa a pieni voti Alba Rohrwacher: si vedono gli attori che lavorano all’estero e che vi lavorano per la loro bravura e non perché alzano la voce (tipo

Pier…come si chiama….Pierfra... niente me ne ricorderò).


Il suo disagio è dolente, matura piano piano, senza erompere mai in atteggiamenti smodati o eccessivi.


La definirei rigorosamente lineare.


Last but not least: immagine e regia.


Qui il discorso va di pari passo perché il regista gioca un pò sul facile: l’oceano si pone quale contesto e limite all’agire dei personaggi.


Contesto nel senso che la sua immensità lascia intendere che tutto sia possibile, che nulla sia precluso e limite perché comunque c’è il contatto con la sabbia, con la terra che rende più difficile volare.


A proposto di volo il fascino delle riprese con i droni appare inarrivabile.


Il regista, comunque, avendo scritto anche la sceneggiatura ha un controllo assoluto sia

sulle inquadrature che sullo stile recitativo degli attori – riuscendo, come dicevo, a

misurarne le reazioni fisiche di più immediata percezione così da lasciare allo spettatore il compito di porre attenzione agli sguardi, alle mani che si sfiorano, si toccano.


Un film davvero bello che tornerei subito a rivedere.

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