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Recensione a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Quando mio padre ha esalato il suo ultimo respiro, mi trovavo lontano dal suo capezzale.
La distanza che ci separava era di 279 km.
A tanto ammontano i chilometri che, in treno, separano la stazione ferroviaria di Udine da quella di Bologna Centrale.
Avevo imparato le fermate a memoria sapete?
Bologna-San Pietro-Ferrara-Rovigo-Monselice/Abano-Padova-Venezia Mestre e poi, dopo il cambio, Treviso, Conegliano, Sacile, Pordenone, Casarsa della Delizia, Codroipo, Udine.
La notte del 6 giugno 1996, quando alle ore 03.00, appresi da una telefonata della inaspettata dipartita del mio genitore, mica sapevo che il giorno successivo avrei preso per l’ultima volta quei treni.
Mica sapevo che quell’evento avrebbe totalmente cambiato la mia visione della vita, le mie aspettative, il mio futuro.
Quello che sapevo; quello che sentivo era il dolore lancinante procuratomi sì dalla morte (ebbene l’ho pronunciata alla fine la “parola”) ma soprattutto dal senso di colpa devastante derivante dalla consapevolezza di aver ucciso mio padre.
Tranquilli, non ho piantato il coltello tra le scapole a nessuno.
Poca forza, poca determinazione e grande paura delle conseguenze.
No, l’avevo ucciso con le parole.
Sono stato sempre molto bravo con le parole io.
Comunque, dolore e senso di colpa – nella notte del 6 giugno 1996 – si fusero e convissero in me per tutto il tempo necessario a veder albeggiare e a poter prendere il treno per tornare a casa.
Piansi, mio Dio se piansi: piansi durante la notte, piansi durante il viaggio, piansi al funerale e continuai a piangere per mesi dopo quanto accaduto.
Piangevo in privato, piangevo in pubblico.
Senza ritegno.
Senza dignità.
E qui siamo arrivati al punto.
La dignità.
La dignità appartiene al novero dei valori che, in questo mondo moderno ove disveliamo tutto di noi attraverso i social, attraverso i like, le condivisioni, abbiamo relegato in un angolo con sdegno e disdegno.
La invocano in tanti la dignità ma pochi, davvero pochi la praticano e la conoscono.
Pedro Almodovar è uno di quei pochi.
Il suo film “La Stanza accanto” mi ha lasciato inizialmente alquanto perplesso.
Immaginavo, immaginavo il film intendo, che il regista inneggiasse al dolore, costruisse una sorta di universo parallelo in cui le due donne protagoniste dessero libero sfogo – con intensità – al proprio dolore.
Nulla di più sbagliato.
“La stanza accanto” rappresenta un necessario, sentito e profondo richiamo al valore della dignità umana.
Dignità che consiste nella possibilità di scegliere il tempo ed il modo della propria dipartita; dignità che si manifesta attraverso la volontà di preservare i propri familiari dal fardello di dover condividere il cammino che porta o porterà, se vogliamo, tutti noi a passare oltre.
La dignità presuppone un profondo amore per sé stessi e per il mondo ed implica la misura nell’esternazione del dolore.
Ne “La stanza accanto”, le due protagoniste soffrono e tanto.
Tuttavia il dolore che le attanaglia rimane un qualcosa che si ha pudore a rendere noto al mondo e financo a chi appunto ti sta accanto.
In tutto il film, una gigantesca, incommensurabile Tilda Swinton versa pochissime lacrime e quelle poche sono appena accennate; mai assistiamo a scene di pianto tremebondo e disperato.
Almodovar mai indugia su scene patetiche o strappalacrime.
Il regista evita di rappresentare la protagonista in preda al dolore fisico suppongo insopportabile che un tumore terminale alla cervice con metastasi al fegato può comportare.
E’ tutto un togliere, un lavorare in “minore”.
Qui siamo lontani dall’enfasi dell’inizio della Nona di Beethoven.
Ci troviamo piuttosto all’interno del tessuto avvolgente e rassicurante di un Notturno di Chopin.
L’uso del termine rassicurante non è affatto casuale.
L’interazione tra le due protagoniste donne (che bello ci siano così tanti film in cui la parola, finalmente, venga data solo ed esclusivamente ad uno degli altri orientamenti sessuali diversi da quello maschile) viaggia proprio su questo binario.
La rassicurazione reciproca.
Julianne Moore, l’altra incredibile attrice che anima questo affresco sulla dignità umana, passa tutto il film a cercare di rassicurare l’amica sul fatto che il dolore non la stia soverchiando.
Lei, Julianne – prescelta e scelta quasi per caso allo scopo di affiancarla nel viaggio che condurrà all’eutanasia o meglio al suicidio assistito – ci rimanda un personaggio in evoluzione continua.
Una donna la cui maturazione emotiva parte da una inziale difficoltà di accettare la morte; passa poi all’accettazione della stessa; per giungere alfine alla consapevolezza che scegliere quando morire non dovrebbe essere un privilegio che pochi si possono permettere per diverse ragioni.
Decidere il tempo della nostra dipartita sembra volerci comunicare Almodovar spetta solo a noi, a ciascuno di noi.
Nessuno può anteporre la propria egoistica visione del mondo, della religione, dei rapporti affettivi al necessario rispetto di una scelta che sì deve essere consapevole ma deve, soprattutto, preservare la nostra dignità.
La Stanza accanto dunque appartiene alla categoria dei piccoli gioiellini che indossiamo con cura ed attenzione: mai per sfoggiarli, per suscitare il luccichio negli occhi altrui ma per generare in chi li osserva un sentimento di profondo, incondizionato amore.
Ed è l’amore il secondo tema che viene toccato dal film.
Un amore che ha diversi nomi e diversi colori: l’amore filiale, l’amore per un uomo/donna, l’amore per un’amica.
In tutte queste declinazioni, che Almodovar illustra con piccole pennellate d’autore, l’amore è lontano – assai lontano – da quel sentimento passionale, frenetico, travolgente cui il regista ci ha abituati in altri film.
Si tratta di un amore maturo, di un amore calmo, di un amore per certi versi deludente.
E’ l’amore di chi sa. Sa riconoscere i pregi ed i difetti dell’altro; sa rispettare le libertà dell’altro.
Su questo punto, mi voglio soffermare prima di chiudere (lo so non ho parlato della recitazione, della regia ma scusate chissenefrega).
La prima parte del film è dedicata quasi totalmente all’illustrazione delle ragioni che hanno portato la figlia ad allontanarsi dalla Swinton.
Ebbene, queste ragioni trovano spiegazione e ragion d’essere in un gesto di incredibile generosità che la protagonista aveva compiuto nei confronti del padre della figlia, un marine tornato dalla guerra in Iraq con una sindrome post traumatica da stress.
Lungi dal volerlo legare a sé attraverso la gravidanza, la Swinton – all’epoca del concepimento un’adolescente – lascia libero l’uomo di rincorrere e affrontare i propri demoni.
Dignità e amore.
Di questo parla La Stanza accanto.
Ed è per questo che lo reputo davvero un film da non perdere.
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