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~ LA REDAZIONE DI RC
Alfred Hitchcock è noto per i suoi film carichi di suspense e atmosfere inquietanti, ma anche per le sue tecniche uniche nel dirigere gli attori. Tra i suoi metodi più interessanti e, per certi versi, estremi, vi era l'abitudine di chiedere agli attori di restare nel personaggio anche fuori dal set, per l'intera durata delle riprese. Questa richiesta, che oggi potrebbe sembrare bizzarra, è stata invece uno degli elementi distintivi della sua direzione, permettendo di ottenere performance intense e autentiche. Ma come funzionava, e perché Hitchcock riteneva questa pratica così importante?
Hitchcock credeva che l’immersione costante nel personaggio potesse aiutare l'attore a mantenere uno stato psicologico ed emotivo stabile e coerente, in linea con le esigenze della storia. Per esempio, chiedere a un attore di “uscire” dal personaggio tra una scena e l’altra rischia, secondo questa visione, di interrompere la continuità emotiva e di farlo allontanare dalla realtà del personaggio. È un po' come se un attore, a ogni pausa, uscisse da una trance ipnotica: il rischio è quello di perdere l’intensità che rendeva credibile la performance. Hitchcock, consapevole di quanto fosse difficile e delicato questo equilibrio, si preoccupava di costruire attorno all’attore un ambiente che gli permettesse di restare in quella “bolla” narrativa senza distrazioni o deviazioni.
Questa tecnica di rimanere sempre “in character” aveva una funzione ben precisa anche nel portare gli attori a reagire, in modo quasi istintivo, ai cambiamenti di scena e agli sviluppi emotivi della storia. Hitchcock cercava di creare una connessione quasi automatica tra l’attore e il personaggio, dove ogni espressione, movimento o sguardo risultasse istintivo, perché non frutto di un processo di “entrata e uscita” dal ruolo. Per ottenere questo effetto, Hitchcock limitava anche le informazioni che forniva agli attori. Spesso, infatti, sceglieva di non dare dettagli sulle scene successive, facendo sì che l’attore si trovasse in una sorta di tensione costante, in linea con l'atmosfera dei suoi thriller.
Un esempio emblematico di questa pratica è la direzione di Tippi Hedren in Gli uccelli. Hitchcock voleva che l’attrice provasse davvero paura e tensione durante le riprese delle scene più intense. La obbligò a vivere un’esperienza di terrore reale, quasi come se il personaggio fosse realmente in pericolo, senza darle tempo di uscire dall’emozione tra una scena e l’altra. Questo approccio ebbe un impatto fortissimo sulla sua performance, anche se poi Hedren dichiarò di aver vissuto momenti di enorme stress, proprio a causa della difficoltà di separare sé stessa dal personaggio.
Questo tipo di approccio non è per tutti e richiede una grande predisposizione psicologica da parte degli attori. Se da un lato è un metodo che funziona per interpreti capaci di sostenere queste pressioni emotive, dall’altro può rivelarsi rischioso per chi non riesce a “ritornare in sé” alla fine della giornata di riprese. Hitchcock, da maestro del cinema quale era, usava questo metodo per creare personaggi e performance indimenticabili, spesso al prezzo di esperienze piuttosto intense e drammatiche per chi stava davanti alla macchina da presa.
Daniel Day-Lewis è senza dubbio uno degli attori più discussi quando si parla di "method acting" estremo. La sua dedizione totale ai personaggi, spesso portata a livelli che sfiorano l’ossessione, ha prodotto alcune delle interpretazioni più incisive della storia del cinema. Il metodo di Day-Lewis si estende anche alla sua vita privata, permeando ogni aspetto della sua quotidianità per mesi. A differenza di Hitchcock, qui è l'attore stesso a decidere di calarsi così profondamente nei suoi ruoli, in un processo di trasformazione che coinvolge corpo, mente e perfino le relazioni interpersonali. Ma perché Day-Lewis sente il bisogno di spingersi così lontano? E quali risultati ha ottenuto?
Uno dei casi più celebri del suo metodo estremo è il ruolo di Bill “il Macellaio” in Gangs of New York (2002) di Martin Scorsese. Per interpretare questo violento e carismatico leader della New York di metà Ottocento, Day-Lewis non solo imparò a maneggiare veri coltelli e ad affilare lame come un autentico macellaio, ma continuò a vivere come il suo personaggio anche fuori dal set. Durante le riprese, spesso frequentava i bar di Cinecittà, vestito e comportandosi come Bill, mantenendo una presenza intimidatoria e uno sguardo gelido. Day-Lewis aveva bisogno di vivere come il personaggio per comprenderne la mentalità, per avvicinarsi ai suoi pensieri e alle sue emozioni. L’attore si è anche ammalato di polmonite durante le riprese, poiché rifiutava di indossare abiti moderni per coprirsi meglio dal freddo: per lui, se il personaggio non avrebbe avuto una giacca moderna, nemmeno lui avrebbe dovuto indossarla.
Altrettanto noto è il suo approccio per il film Lincoln (2012) di Steven Spielberg, dove Day-Lewis si è trasformato nel presidente Abraham Lincoln con una precisione quasi maniacale. Per tutta la durata delle riprese, non solo manteneva l’aspetto e il modo di camminare del presidente, ma chiedeva al cast e alla troupe di chiamarlo “Mr. President.” Questa insistenza su piccoli dettagli, apparentemente insignificanti, lo aiutava a mantenere vivo il senso di autorità e la dignità che Lincoln esprimeva, anche nelle interazioni quotidiane. Perfino i suoi messaggi di testo a Sally Field, che interpretava la moglie di Lincoln, erano scritti in un linguaggio dell’Ottocento, quasi a voler creare un microcosmo storico in cui vivere per tutta la durata del film. Spielberg e il resto del cast hanno assecondato questa scelta, riconoscendo che per Day-Lewis era una questione di concentrazione e di rispetto verso il personaggio, più che un semplice vezzo.
Questa dedizione estrema di Day-Lewis è stata premiata con l'Oscar per la miglior interpretazione maschile per Lincoln, uno dei suoi tre Oscar da protagonista (gli altri due sono per Il mio piede sinistro e Il petroliere). Ogni suo ruolo viene interpretato con una convinzione che rasenta l’auto-suggestione, dove l’attore non finge di essere un altro, ma diventa letteralmente un’altra persona. È un processo che richiede un’immersione psicologica intensa e faticosa, spesso accompagnata da un allenamento fisico specifico e dalla rinuncia a molti aspetti della sua vita privata.
Questo approccio ha generato discussioni sia nel mondo del cinema che tra il pubblico: se per alcuni questa forma di immedesimazione è l’essenza stessa della grande recitazione, per altri è un’esagerazione che mette a dura prova l’equilibrio psicofisico dell’attore.
Tuttavia, non si può negare che il risultato finale abbia un impatto emotivo fortissimo sullo spettatore. Day-Lewis porta in scena personaggi complessi, ambigui, ma soprattutto autentici, con una naturalezza che pochi attori riescono a raggiungere. Ogni movimento, ogni sguardo, ogni sfumatura della sua voce sembra nascere spontaneamente dal personaggio, come se non ci fosse mai stata nessuna separazione tra l’attore e il ruolo.
Il "method acting" è considerato una delle tecniche più efficaci per ottenere interpretazioni memorabili, ma comporta anche sfide significative che possono influenzare l’equilibrio psicofisico degli attori. Questo metodo, reso famoso da Lee Strasberg e applicato con dedizione estrema da attori come Daniel Day-Lewis e Robert De Niro, richiede un’immersione così completa nel personaggio da eliminare quasi ogni barriera tra la realtà dell’attore e quella della finzione. Ma cosa significa davvero “diventare” un personaggio? E quali sono i rischi emotivi e fisici che questo approccio può comportare?
L’aspetto psicologico del method acting è forse il più delicato. Gli attori che scelgono questa via si immergono completamente nel personaggio, tentando di pensare, sentire e vivere come lui, per trasmettere un’autenticità profonda allo spettatore. Entrare nella mente di un personaggio complesso, con traumi, ossessioni o emozioni difficili, può diventare un’esperienza travolgente. Heath Ledger, per esempio, ha raccontato di aver sofferto durante l’interpretazione del Joker in Il Cavaliere Oscuro, un ruolo che richiedeva di esplorare profondità oscure della psiche. L’isolamento, l’insonnia e l’intensità emotiva necessaria per mantenere il personaggio hanno avuto ripercussioni anche nella sua vita privata, sollevando una questione: fino a che punto è sostenibile questo approccio?
A lungo termine, le ripercussioni psicologiche del method acting possono essere significative, tanto da costringere alcuni attori a cercare assistenza terapeutica per “decomprimere” e ritornare a una condizione di normalità. Questo “processo di decompressione” può richiedere settimane o mesi, e non è sempre garantito che funzioni. Marlon Brando, uno dei primi grandi interpreti del method acting, aveva parlato spesso del peso emotivo che ogni ruolo lasciava su di lui, come un residuo impossibile da eliminare completamente. Per alcuni attori, portare dentro di sé le emozioni, le ferite e i conflitti dei personaggi può generare un accumulo di tensioni che non sempre sono facili da risolvere, influenzando la loro vita e le loro relazioni.
Oltre alla sfera psicologica, il method acting impone anche notevoli sfide fisiche. Trasformazioni drastiche del corpo, cambiamenti di peso, adattamenti a condizioni ambientali estreme: sono tutti elementi che, per quanto diano veridicità al personaggio, richiedono un sacrificio fisico intenso. Robert De Niro ha messo su oltre 27 chili per interpretare Jake LaMotta in Toro Scatenato, mentre Christian Bale ha raggiunto un’estrema magrezza per L’uomo senza sonno per poi passare a un fisico muscoloso per Batman Begins in tempi record. Questi cambiamenti, oltre a essere estenuanti, possono comportare conseguenze sulla salute. Bale stesso ha raccontato che il rapido cambio di peso lo ha debilitato fisicamente, tanto da dover fare i conti con malesseri fisici e problemi metabolici anche molto tempo dopo le riprese.
Non tutti gli attori, però, sono disposti a prendere il method acting così sul serio. Alcuni, come Laurence Olivier, lo criticavano apertamente, definendolo “inutile” e sostenendo che la bravura di un attore risieda nella capacità di “fingere” in modo convincente, senza dover soffrire realmente. Dustin Hoffman raccontò che, durante le riprese di Il maratoneta, aveva passato la notte insonne per entrare nel personaggio, ma fu Olivier stesso a suggerirgli ironicamente: “Perché non provi a recitare?” Questa aneddoto riflette bene la dicotomia tra attori che credono nella pura “immedesimazione” e quelli che vedono nella recitazione una professione dove la finzione non deve necessariamente alterare la realtà.
Oggi molti attori e registi scelgono di evitare un metodo così immersivo, preferendo tecniche che permettono di entrare e uscire rapidamente dal personaggio. Altri utilizzano una versione “ibrida” del method acting, mantenendo una connessione emotiva con il personaggio ma preservando la possibilità di separarsi da esso. Joaquin Phoenix, per esempio, si è avvicinato a una versione più personale del metodo durante la preparazione di Joker, dove ha lavorato intensamente su alcuni aspetti del personaggio – come la risata e i movimenti del corpo – senza per questo rimanere costantemente nel personaggio durante la vita quotidiana. È un approccio che cerca di combinare la ricerca interiore con la necessità di proteggere la propria stabilità emotiva.
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