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Articolo a cura di...
~ LUCA FERDINANDI
Sabato si è tenuta la plenaria conclusiva degli Stati Generali dello Spettacolo. C’ero. Perché se c’è un principio che accomuna Recitazione Cinematografica – la community fondata quasi due anni fa da Alfonso Bergamo, di cui sono Co-Fondatore – è proprio questo: unirsi, cercare risposte collettive, anche quando tutto sembra sfuggire. Quando i casting non vanno, quando il lavoro non arriva, quando ci sentiamo soli, non rappresentati, dimenticati.
Sabato ho assistito a qualcosa di importante, che avrei voluto far vivere a tutti i mille membri della nostra community WhatsApp e ai quasi tremila iscritti della Newsletter. Perché lì, su quel palco, c’è stato un grido corale. C’è stata dignità. C’è stato chi ha denunciato, chi ha proposto, chi ha resistito. C’è stata rabbia, delusione, stanchezza. Ma nessuno ha perso quella scintilla che, nel profondo, ci tiene vivi: il bisogno di raccontare, di lavorare, di esistere come professionisti dello spettacolo.
Abbiamo ascoltato produttori e registi parlare della necessità di dati certi, di unità tra le associazioni, della fine dell’ideologizzazione del cinema. Abbiamo ascoltato le maestranze denunciare anni di silenzio, precarietà e abbandono. Abbiamo sentito parole contro lo smantellamento del tax credit, contro una narrazione tossica che ci ha trasformati in una categoria-fantasma. Abbiamo visto un’industria culturale lottare per non scomparire.
E se oggi scrivo questo, è anche per lanciare un piccolo appello. Recitazione Cinematografica c’è. Siamo vivi. E, nel nostro piccolo, vogliamo esserci anche nei prossimi passi di questa battaglia. Una battaglia per la dignità. Per un’industria che non lasci indietro nessuno.
Perché sì, è tristemente vero: siamo a un minuto a mezzanotte. Forse anche qualche secondo sotto.
Ma è altrettanto vero che non è ancora finita.
Buona lettura

Tosca ha aperto l'incontro con un discorso sull’Officina Pasolini, descrivendola non come un semplice spazio fisico ma come una comunità viva, un laboratorio permanente in cui gli artisti possono sbagliare, crescere e contaminarsi tra generazioni, linguaggi e discipline. Ha sottolineato l'importanza del fare cultura dal basso, in luoghi come questo dove la passione è spesso l’unico motore, e ricorda come figure come Pasolini e Gian Maria Volonté abbiano incarnato l’idea che arte e impegno civile siano inseparabili. Ha parlato della condizione attuale del settore musicale (che conosce più da vicino), denunciando la precarietà diffusa, la solitudine dei professionisti e la mancanza di tutele. Per rispondere a queste fragilità, tre parole chiave:
Educazione: la musica va insegnata come disciplina e mestiere, non come passatempo.
Riconoscimento: ogni figura della filiera musicale merita dignità e tutela.
Rete: solo con l’unione tra artisti, istituzioni, scuole e realtà culturali si può costruire un sistema solido.
Nel solco di questa visione, ha presentato il progetto MAC – un coordinamento nazionale per la musica d’autore contemporanea, pensato per sostenere artisti emergenti, festival indipendenti, live club, e per portare lo studio della canzone nelle scuole. La cultura è un presidio sociale, che genera economia, benessere e coscienza critica. “La rivoluzione è un lavoro poetico” e l’arte, quando è libera, può cambiare le persone e forse anche il mondo.
Ha sottolineato l’importanza della collaborazione tra istituzioni e del ruolo strategico dell’Officina Pasolini come modello di cultura viva e partecipata, ed evidenziato i risultati ottenuti con i fondi PNRR e Next Generation EU, come la nascita di 43 nuove biblioteche, aule studio e spazi culturali nelle periferie romane, da tematizzare con la comunità. Ci sono interventi per il recupero di sale cinematografiche e teatri, come il Valle, e il progetto "Opera Camion", per portare spettacoli anche nei quartieri più difficili.
Ha invitato a considerare spettacolo e cultura come lavoro vero: con salari, tutele, e investimenti strutturali, al di là delle appartenenze politiche. In chiusura, ha ribadito che la qualità culturale è ciò che resta e che solo attraverso l’ascolto e la condivisione tra amministrazioni e operatori culturali si possono costruire politiche efficaci.
Ha ringraziato per l’invito e difeso l’Officina Pasolini come presidio culturale che la Regione ha deciso di salvare e rafforzare. Ha segnalato la sua preoccupazione per la questione del tax credit nel cinema, visto l'impatto economico sul Lazio (che copre il 60% del mercato audiovisivo nazionale): la cultura è un bene comune, non appannaggio di partiti. La polarizzazione politica danneggia il settore. Ha ricordato le difficoltà nel riaprire spazi simbolici come il Teatro Eliseo o il Teatro di Roma, spesso ostaggio di scontri ideologici. Ha poi proposto una legge sulla “città della notte”, per rivitalizzare lo spettacolo e l’intrattenimento anche in contesti urbani complessi, come le periferie (Sul tema tornerà Valerio Cartocci nel suo intervento). Ha concluso dicendo che la cultura e sanità sono i due ponti globali che uniscono le società: entrambi vanno difesi e rafforzati.
Maurizio Roy ha aperto rilanciando la riapertura del Teatro Valle entro ottobre 2026, sottolineando il valore simbolico e culturale dell’operazione. Ha raccontato di aver coordinato il tavolo dedicato al Codice dello Spettacolo, che ha visto una partecipazione ampia e altamente competente. Dal tavolo è emersa una preoccupazione forte: il rischio che la legge delega scada senza essere attuata. Ha ribadito la necessità di rispettare la scadenza del 31 dicembre 2026, sottolineando che per i tempi istituzionali “è dopodomani”. Tra i punti positivi ha evidenziato il riconoscimento del rischio culturale come valore intrinseco del lavoro artistico. Ha ricordato che l’arte deve poter sbagliare per poter innovare. Tra le criticità ha invece segnalato l’indennità di discontinuità, attuata ma giudicata inefficace. Ha invocato una legge primaria per il teatro di prosa, un maggior sostegno alla distribuzione e circuitazione teatrale, e l’inclusione dei live club e della musica popolare nel sistema dei fondi pubblici. Ha chiesto semplificazione normativa e accordi di programma tra enti.
Il senatore Marcheschi ha portato un saluto, ribadendo l’importanza degli Stati Generali dello Spettacolo come spazio di confronto trasversale, utile ad affrontare le fragilità strutturali del settore. Ha sottolineato che molte delle proposte dei tavoli precedenti sono già confluite nel Codice dello Spettacolo, e ha chiesto agli organizzatori di riceverne gli atti conclusivi.Ha presentato un ordine del giorno approvato in Senato, collegato alla legge di bilancio, per sostenere la musica popolare, in particolare lo spettacolo dal vivo, i piccoli concerti e l’internazionalizzazione della musica italiana. Ha anche auspicato interventi legislativi per aumentare e modernizzare gli impianti destinati allo spettacolo dal vivo, con particolare attenzione al Sud Italia e a Roma, dove ha riconosciuto una carenza infrastrutturale. Infine, ha commentato la situazione del cinema italiano, riconoscendo che la fase di assestamento e riforma (in particolare sul tax credit) è stata necessaria. Ha difeso il lavoro del Ministero della Cultura, auspicando che le nuove regole trasparenti permettano presto una vera rinascita del cinema italiano, con rispetto per tutta la filiera, dalle produzioni alle maestranze.
Lucia Maggi ha restituito il lavoro del tavolo sull’intelligenza artificiale, che ha rappresentato un momento di confronto importante sul modo in cui le tecnologie stanno già trasformando il settore culturale e dello spettacolo. Ha spiegato che l’AI è ormai una realtà quotidiana, non una minaccia futura. Ha chiarito che il gruppo ha individuato tre pilastri fondamentali per affrontare la sfida:
Trasparenza – Ha ribadito con forza che serve applicare rapidamente l’AI Act europeo, imponendo la tracciabilità dei dati, la dichiarazione d’uso dell’AI nella creazione dei contenuti e il riconoscimento delle opere originali.
Tutele, formazione, investimenti – l’innovazione tecnologica deve essere accompagnata da protezione e crescita professionale, attraverso ammortizzatori sociali, formazione continua e incentivi per chi adotta l’AI in modo etico.
Rete – Ha proposto di creare un sistema stabile di collaborazione tra istituzioni, artisti, imprese e università, che trovi rappresentanza nell’Osservatorio Nazionale sull’AI, così da partecipare attivamente alla scrittura delle regole, e non subirle.
In chiusura, ha affermato che la rivoluzione digitale può e deve essere anche umana, civile ed etica. Ha chiesto un’intelligenza artificiale trasparente, inclusiva e solidale, che non metta da parte la cultura ma la rafforzi. Solo così, ha concluso, lo spettacolo continuerà a essere lo spazio in cui l’umanità si racconta, anche nell’era dell’algoritmo.
Ha portato un messaggio di incoraggiamento, legando il proprio intervento alla discussione sull’AI Act, di cui è stato relatore al Parlamento Europeo. Ha ricordato il lavoro condiviso con Massimiliano Smeriglio nella legislatura precedente, sottolineando che l’obiettivo comune è tutelare il valore della creatività umana da uno sfruttamento indiscriminato da parte delle grandi piattaforme tecnologiche. L’AI non va demonizzata, ma deve essere governata con regole forti. Ha rifiutato sia l’entusiasmo cieco sia il rifiuto assoluto della tecnologia, sostenendo che l’intelligenza artificiale può fare arte, ma gli artisti devono avere strumenti, formazione e diritti per usarla senza esserne schiacciati. Ha insistito su due concetti chiave: ogni artista deve poter rifiutare l’uso della propria opera da parte delle AI; e se un contenuto è stato usato senza consenso, l’autore deve poterlo sapere e agire per ottenere giustizia.
Thomas Trabacchi ha preso la parola per restituire il lavoro svolto all’interno del tavolo sul Codice dello Spettacolo, concentrandosi in particolare sulla situazione dei lavoratori autonomi dello spettacolo, portando anche una testimonianza personale come esempio paradigmatico. Ha denunciato il fatto che, nonostante le richieste avanzate già nell’edizione precedente degli Stati Generali, nessun vero strumento di welfare è stato creato per chi lavora a intermittenza, come gli attori. Ha espresso frustrazione e stanchezza, spiegando che chi vive una contrazione lavorativa, pur avendo contribuito regolarmente, non riceve alcun sostegno. Ha dichiarato di sentirsi riconosciuto dallo Stato solo quando è tempo di pagare i contributi.
Ha chiesto di superare la logica della polarizzazione politica: la mancanza di lavoro colpisce chiunque, indipendentemente dalle idee. Ha espresso gratitudine verso l’onorevole Gianmarco Mazzi e l’INPS per aver avviato un tavolo tecnico previsto per il 20 novembre, dove Unita ha portato richieste concrete:
Trasformare l’indennità di discontinuità in uno strumento universale, realmente in grado di sostenere la specificità dell’intermittenza degli attori.
Valutare la carriera sulla base dello storico contributivo, e non solo dell’ultimo anno.
Eliminare il vincolo del reddito prevalente, che esclude molti professionisti.
Infine, ha avanzato una proposta tecnica: far rientrare l’indennità di discontinuità sotto l’art. 24 della legge 88/1989, che disciplina i fondi di garanzia. Questo, secondo Trabacchi, permetterebbe di autoalimentare il fondo con i contributi di lavoratori e imprese, liberando risorse pubbliche e garantendo sostenibilità economica. Ha concluso passando la parola all’avvocata Federica Murineddu, sottolineando la gravità di un problema pensionistico che riguarda tutta la categoria.
Federica Murineddu ha lanciato un allarme: una recente sentenza della Corte di Cassazione rischia di negare il diritto alla pensione a gran parte dei lavoratori dello spettacolo. Ha spiegato che la Cassazione ha stabilito un principio secondo cui l’INPS, nel calcolare l’anzianità contributiva utile per la pensione, deve considerare solo gli anni solari (dal 1° gennaio al 31 dicembre) in cui sono stati raggiunti almeno 90 giorni di contributi. Tutti gli anni in cui si è lavorato meno non varrebbero nulla ai fini del conteggio. Ha fatto l’esempio concreto di un attore che lavorasse 89 giorni l’anno per 50 anni: non maturerebbe mai il diritto alla pensione, perché nessun anno risulterebbe “completo” secondo questa logica. Ha contestato la sentenza, affermando che la legge non menziona il concetto di anno solare e che, anche qualora fosse intesa in quel modo, sarebbe incostituzionale, perché escluderebbe intere categorie di lavoratori. Ha aggiunto che questo principio, se applicato in via generale, metterebbe a rischio tutti i lavoratori precari, non solo artisti: stagionali, part-time, lavoratori intermittenti di ogni tipo. Ha esortato tutti i presenti a mobilitarsi per tutelare un diritto fondamentale come la pensione, spiegando che anche nei suoi corsi universitari la gravità della situazione è risultata evidente persino agli studenti.
Carlo Lanciotti ha portato la voce delle compagnie strutturate che operano open air, spesso chiamate da festival, comuni o enti per animare piazze e borghi. Ha sottolineato che si tratta di un settore giovane, profondamente radicato nel teatro di strada e nel circo contemporaneo, ma che oggi vive criticità strutturali profonde. Ha lanciato un appello semplice: se il nuovo Codice dello Spettacolo non parte dal rispetto per chi lavora, non avrà alcun futuro. Dignità e certezze devono valere per tutti, dal primo cantante lirico all’ultimo attrezzista. Ha raccontato la difficoltà concreta delle compagnie nel sostenere economicamente le prove degli artisti, costretti ad allenarsi quotidianamente senza che questo venga riconosciuto come lavoro. Lanciotti ha descritto con amarezza l’esodo culturale, parlando non da teorico, ma da uomo di compagnia che per anni ha lavorato in fabbrica prima di scegliere la strada dell’arte. Ha concluso con una riflessione dal tono amaro e accorato: se non cambiamo ora, non lasceremo nulla a chi verrà dopo di noi. E il rischio è che un'intera generazione di artisti, già formati, si perda nel silenzio istituzionale.
Francesca D’Ippolito ha affrontato il tema del Codice dello Spettacolo da una prospettiva più ampia e politica, rappresentando il coordinamento C.Re.S.Co. che lavora sul tema da prima ancora della legge 175 del 2017. Ha evidenziato come il settore soffra di una malattia cronica: il presentismo, ovvero l’incapacità di pensare al futuro e di progettare riforme strutturali. Ha però voluto vedere un spiraglio di speranza: alcuni concetti fondamentali sono finalmente riemersi nella bozza del nuovo codice. Ha citato tra questi il “rischio culturale”, l’attenzione ai linguaggi multidisciplinari, l’innovazione scenica e il valore costituzionale della cultura. Elementi che, ha detto, vanno difesi con forza, perché sono il cuore stesso della legittimità del finanziamento pubblico allo spettacolo.
D’Ippolito ha lanciato un appello a combattere anche il personalismo, denunciando pratiche che hanno portato alla scrittura di decreti ministeriali costruiti su deroghe e aggiustamenti ad hoc. Ha chiesto che il nuovo codice venga pensato non per chi lo scrive oggi, ma per chi lo erediterà domani. Ha concluso invitando tutti a esercitare il muscolo più importante in questo tempo incerto: quello democratico, ovvero la capacità di creare un sistema inclusivo, in cui il rischio culturale significhi permettere all’arte di accadere dove il mercato non arriva. Solo così – ha detto – lo Stato può davvero avere un senso nel sostenere la cultura.
Andrea Bandini ha restituito i lavori di un tavolo che ha avuto il merito di portare una visione economica e territoriale all’interno degli Stati Generali dello Spettacolo. Ha ricordato quanto sia fondamentale leggere il settore culturale non solo come bene simbolico o sociale, ma anche come comparto economico con numeri concreti: l’industria culturale ha inciso per l’1,6% sul PIL italiano e ha mosso circa 28 miliardi di euro, occupando più di 840.000 persone, ovvero il 3,5% dell’occupazione nazionale. Ha anche segnalato le criticità strutturali: bassa redditività, precarietà cronica, frammentazione estrema con imprese unipersonali in larga maggioranza e una distribuzione territoriale diseguale con forti concentrazioni a Milano e Roma e desertificazione culturale altrove.
Bandini ha sostenuto con fermezza che l’intervento statale in cultura non è un atto di benevolenza, ma risponde a una precisa ratio economica, perché si tratta della produzione di beni pubblici misti: cioè beni che il mercato da solo non riesce a garantire. Ha insistito sul fatto che lo Stato non deve solo “sostenere”, ma accompagnare il settore culturale a diventare competitivo, incentivandone la crescita e favorendo l’aggregazione di piccole realtà per affrontare le sfide del mercato globale. Ha richiamato la necessità di strutture adeguate anche al Sud, dove mancano spazi per concerti e grandi eventi. Ma ha anche valorizzato le micro-imprese culturali locali, spesso operanti nelle aree interne e capaci di contrastare l’abbandono culturale.
Ha rilanciato l’importanza per chi studia il settore di superare le ambiguità nella classificazione della cultura, di sviluppare una valutazione rigorosa delle politiche pubbliche – sia prima che dopo la loro attuazione – per dare strumenti concreti al legislatore. Ha definito gli Stati Generali uno spazio prezioso per questo confronto e ha garantito il suo impegno nel continuare a lavorare con e per il settore.
Tommaso Bori ha esordito citando Brecht: “Di fronte a chi stravolge le tue parole… l’unica risposta possibile è la tua”. Una frase che ha usato per introdurre una riflessione sul valore politico e civile degli Stati Generali, come spazio in cui la cultura non è una delega minore, ma una leva di trasformazione democratica. Ha raccontato il lavoro svolto in Umbria negli ultimi nove mesi: la redazione del primo Testo Unico regionale sulla Cultura e sull’Impresa Creativa, un progetto ambizioso che ha avuto l’obiettivo di restituire dignità e centralità al lavoro culturale. Con questo testo, la Regione ha voluto dire no alla precarietà, no al sottopagamento, no alla marginalizzazione degli operatori culturali.
Ha dichiarato con orgoglio di essere vicepresidente con delega alla Cultura e al Bilancio, e ha annunciato che la Regione Umbria ha raddoppiato i fondi destinati alla cultura: un segnale chiaro, ha detto, che le risorse ci sono, ma dipende tutto da quali priorità si scelgono. Secondo Bori, investire in cultura è investire in libertà. Ha affermato che chi vuole cittadini sostiene la cultura, mentre chi vuole sudditi la taglia. Per questo ogni euro investito è un investimento nel pensiero critico e nella cittadinanza attiva.
Ha chiuso citando una ricerca dell’Università di Perugia: ogni euro investito in cultura genera un moltiplicatore economico di 3. “Rende più dei Bitcoin”, ha detto con ironia, “eppure c’è ancora chi non lo vuole capire”.
Francesco Giambrone ha centrato il suo intervento su un’urgenza: la necessità di una visione per il nuovo Codice dello Spettacolo. Ha ribadito con chiarezza che non è vero che le risorse mancano: è una questione di priorità. Quando la politica sceglie, deve avere il coraggio di considerare la cultura come investimento, non come peso economico. Un investimento che produce valore in termini culturali, sociali ed economici. Secondo Giambrone, il codice attuale rischia di limitarsi a un’armonizzazione burocratica di norme frammentate, senza affrontare le grandi questioni sistemiche. Serve invece un impianto normativo che riequilibri davvero il sistema, colmando i vuoti, come quello – paradossale – dell’assenza storica di una legge sulla prosa in Italia.
Ha ricordato che il nostro è un Paese che ha investito molto nella lirica e nelle fondazioni lirico-sinfoniche, ma che lo spettacolo è un ecosistema vasto e interconnesso, fatto anche di bande, cori, orchestre, teatri diffusi e realtà locali. Tutte queste forme devono trovare riconoscimento e dignità all’interno del nuovo codice. Giambrone ha anche denunciato l’eliminazione del termine “rischio culturale” dalla bozza attuale: una parola chiave che dovrebbe invece tornare al centro del discorso pubblico, così come la questione territoriale, troppo spesso rimossa, ma determinante per garantire equità e accesso.
Infine, ha toccato un tema che attraversa trasversalmente il sistema: l’accessibilità culturale. Il teatro, la musica, la cultura in generale non possono restare appannaggio di pochi. Troppo a lungo – ha ammesso con autocritica – il settore è stato elitario, chiuso. Ha auspicato un codice che introduca strumenti reali per allargare la partecipazione, rendendo lo spettacolo davvero per tutti. “Stiamo lavorando con AGIS e continueremo a farlo”, ha concluso. “Ma serve ascolto, serve cambiamento”.
Bruno Sconocchia ha portato sul palco la voce di un settore spesso dimenticato nel dibattito istituzionale: la musica popolare contemporanea. Ma lo ha fatto con lo sguardo largo di chi vede nello spettacolo dal vivo non solo un evento artistico, ma un fenomeno sociale, culturale ed economico. Ha descritto i grandi concerti come nuove forme di aggregazione collettiva, capaci di unire centinaia di migliaia di persone in un’esperienza condivisa che, in una società sempre più disgregata, ha preso il posto di cortei e manifestazioni. Un concerto, ha detto, non è solo musica, è un rito collettivo dove l’“io” si fonde nel “noi”.
Ha portato dati concreti: nel solo 2024, il comparto ha generato oltre un miliardo e mezzo di euro di incassi da botteghino, con una ricaduta stimata di circa 4,5 miliardi sull’economia dei territori, grazie all’indotto di ristorazione, alberghi, trasporti. Una ricerca dell’Università di Pisa ha calcolato che ogni euro speso per un biglietto genera un ritorno di quasi 5 euro sul territorio. Ha chiesto che questo impatto non venga più ignorato: “Non chiediamo assistenza, chiediamo che venga riconosciuto il nostro ruolo industriale all’interno dell’economia nazionale”. E ha fatto notare le distorsioni strutturali del sistema: il 31% degli incassi si concentra in Lombardia, il 51% dei concerti si tiene in un solo mese e mezzo, e la quasi totale assenza di spazi adeguati nel Sud rende impossibile distribuire equamente l’offerta.
Ha poi evidenziato un altro squilibrio: lo 0,69% degli spettacoli fa più di 10.000 spettatori, ma rappresenta quasi la metà dell’incasso totale. Tutto il resto del sistema – cioè decine di migliaia di spettacoli medio-piccoli – resta sotto i 4.000 euro di incasso.
Davide Dose è partito da un punto fondamentale: la cultura e lo spettacolo in Italia sono un settore variegato, frammentato, ma non per forza disorganico. La pluralità – dai grandi concerti alle rassegne di provincia – non è un problema da risolvere, ma un ecosistema da proteggere. Ha sottolineato quanto sia urgente ripensare il sistema dei bandi, oggi spesso inefficace, localistico e legato a logiche di consenso a breve termine. Invece di creare sviluppo strutturale, i bandi frammentano e rendono fragile il sistema culturale. Occorre una visione che permetta la costruzione del tempo, cioè investimenti duraturi, capaci di creare continuità.
Tra i temi più sentiti al tavolo c’è stato quello dell’accessibilità: dai disabili al pubblico marginale, serve un disegno culturale che non escluda. Ma questo implica costi e responsabilità: gli operatori hanno bisogno di strumenti reali, e non solo di buone intenzioni. Dose ha poi parlato della necessità di riconoscere e legittimare i “terzi luoghi”, spazi ibridi tra pubblico e privato, tra cultura e socialità. Ha ricordato la proposta di legge di Orfini e l'esigenza di includere anche rassegne e festival che operano fuori dagli spazi canonici.
Un altro nodo centrale: garantire la sopravvivenza dell’emergente, della ricerca, della canzone d’autore e delle piccole forme. L’intrattenimento industriale non è un nemico, ma serve equilibrio: la cultura di valore non sempre è immediatamente profittevole, e ha bisogno di sostegno. Ha chiuso con un invito chiaro: serve consapevolezza sull’uso delle risorse pubbliche, da parte delle istituzioni, ma anche degli operatori. La cultura può cambiare la società, ma solo se si agisce con responsabilità e visione. “Facciamo che questo incontro non resti un episodio isolato” – ha detto – auspicando più momenti di confronto come questi, per rafforzare una categoria che ha bisogno di sentirsi parte di un progetto comune.
Valerio Carocci ha portato sul palco un’analisi concreta e radicale del modello francese dei “tiers-lieux” (terzi luoghi), applicata al contesto italiano, in particolare al riuso delle sale cinematografiche abbandonate. Il punto di partenza: la sostenibilità economica di uno spazio culturale non può più dipendere solo dai fondi pubblici a pioggia, spesso incerti e legati a logiche di rendicontazione poco compatibili con la spontaneità creativa. In Francia si è scelta un'altra via: investimenti iniziali una tantum per trasformare gli spazi in ambienti multifunzionali e autosostenibili. Uno degli strumenti più efficaci? L’intrattenimento notturno come motore economico. Carocci ha raccontato come a Parigi sia stato riconosciuto il valore anche culturale del clubbing e della danza, e come questi siano stati utilizzati per finanziare attività gratuite diurne come cineforum, workshop, teatri, dormitori per clochard, aule studio.
Una trasformazione urbana e sociale che ha richiesto però una rivoluzione normativa: modifica dei limiti acustici (da 95 a 103 decibel), spazi insonorizzati, operatori della notte formati come “ambasciatori del silenzio”, regole condivise con il vicinato e una scatola nera acustica collegata alla prefettura per evitare contenziosi. Risultato? Spazi vivi 24 ore su 24, con un equilibrio tra vita urbana e attività culturale. E soprattutto, luoghi capaci di reggersi in piedi economicamente senza dipendere ogni anno dal finanziamento pubblico. Il modello proposto da Carocci è chiaro: una nuova architettura normativa per permettere agli spazi culturali italiani di reinventarsi, diversificare le entrate e restare accessibili, senza per questo perdere la propria vocazione sociale. È un discorso che va oltre la cultura e tocca la vita quotidiana delle città.
Giannelli ha sottolineato una grande assenza nel dibattito degli Stati Generali dello Spettacolo: i bambini e l’infanzia. In quanto direttore di un festival dedicato a infanzia e adolescenza, ha evidenziato come le politiche culturali non tengano conto di questo pubblico fondamentale. Secondo Giannelli, i bambini non solo rappresentano il pubblico del futuro, ma sono già oggi un motore attivo per riempire spazi, cinema, eventi. Tuttavia, mancano spazi, mancano assessorati dedicati (come quello all’infanzia, scomparso sia a Roma sia in Regione Lazio) e manca una visione politica e culturale lunga, che vada oltre le emergenze. L’esperienza concreta di acquisto e rigenerazione del Cinema Fiamma è emblematica: non sarà solo un cinema, ma un polo culturale dedicato soprattutto ai giovani. Un investimento interamente privato, senza contributi pubblici, pensato per diventare un luogo dell’anima e della memoria collettiva. Giannelli ha parlato di progettualità urbana: allargare marciapiedi, creare connessioni con il territorio, costruire un distretto culturale. Ha chiuso con un forte appello alla collettività: no ai personalismi e alle visioni ombelicali, sì al pensiero lungo, al confronto continuo e alla co-progettazione. “Il cinema si fa insieme” – ha detto – e così deve essere anche la cultura.
L’intervento di Marina Cuollo ha riguardato la grave inadeguatezza della proposta di legge in discussione alla Camera sulla partecipazione delle persone con disabilità agli eventi dal vivo. Secondo il comitato Life for All, la proposta rischia di cristallizzare la discriminazione anziché superarla. Sono stati elencati quattro emendamenti fondamentali per correggere il testo:
Stop ai posti segregati: le persone con disabilità devono poter scegliere tra tutti i settori e non essere confinate in aree isolate o scomode. Le eccezioni devono essere oggettivamente insuperabili e motivate.
Accessibilità a 360°: non basta eliminare le barriere architettoniche; bisogna garantire accesso anche a chi ha disabilità sensoriali, cognitive o intellettive, con strumenti adeguati secondo standard internazionali.
Numeri certi e proporzionati: serve una quota fissa di posti accessibili, in proporzione al numero totale, con posti anche per gli accompagnatori a fianco della persona con disabilità.
Informazione accessibile e trasparente: i biglietti per disabili e accompagnatori devono essere disponibili nello stesso momento e attraverso gli stessi canali degli altri biglietti, con informazioni chiare su accessibilità e ubicazione.
L’intervento ha lanciato un chiaro messaggio politico e culturale: l’inclusione non può essere parziale, opzionale o paternalistica. Deve essere strutturale, integrata e garantita per legge.
Rossini ha coordinato il tavolo su Tax credit, tagli e futuro del cinema, definendolo “oltre l’emergenza”. Lancia un allarme molto chiaro: “Il settore è con un piede nel baratro”. Per la prima volta, tutti i principali gruppi industriali della produzione cinematografica hanno partecipato con una forte preoccupazione. Il rischio concreto – se non ci sarà una riforma condivisa del tax credit, delle norme di accesso ai fondi e dei rapporti con le piattaforme – è che dal 1° marzo 2026 il sistema produttivo dell’audiovisivo italiano si spenga, provocando danni strutturali. Rossini denuncia: La mancanza di unità tra artisti, produttori e maestranze; Il pericolo di un sistema piegato agli interessi delle piattaforme; L’assenza di concertazione reale e il timore che, dopo la franchezza degli Stati Generali, si torni alle “trattative sottobanco”.
Cattaneo ha proposto una riflessione sul futuro del settore audiovisivo, a partire da una valutazione storica della Legge Cinema del 2016 (Ministro Franceschini). Pur riconoscendone l’importanza, sostiene che la legge va aggiornata in base alle trasformazioni post-2019 (Covid, impatto delle piattaforme). Ha bisogno di un riequilibrio tra la dimensione culturale e quella industriale, troppo sbilanciata negli ultimi anni; Richiede un miglioramento della governance e una riflessione sulla sua efficacia reale.
Ha poi ribadito tre concetti chiave per il futuro del settore:
Merito – accesso equo al lavoro, in base alla qualità e professionalità;
Indipendenza – tutela dell’autonomia creativa dei professionisti;
Pluralismo – fondamentale per evitare l’omologazione culturale, soprattutto tra i giovani, già formati da contenuti stranieri.
Cattaneo ha infine sottolineato che il cinema deve restare libero e non appartenere alla politica, ribadendo la necessità di un patto tra associazioni, lavoratori e istituzioni per tutelare un’arte che non può essere controllata, ma deve essere sostenuta.
Saccà è intervenuto con un discorso appassionato e lucido sul valore strategico della narrazione e della cultura audiovisiva. Ha smentito il mito secondo cui i giovani non guardano contenuti italiani, citando l’esempio del film Mameli su Rai1 e RaiPlay, visto anche da molti under 25. Ha sottolineato che RaiPlay ha 24 milioni di account attivi, ma ha a disposizione solo 6 milioni di euro per contenuti originali. Ha avanzato una proposta concreta: aumentare il canone RAI di 10 euro l’anno, destinandoli interamente a RaiPlay per finanziare fiction, documentari, animazione, teatro, musica, arte e cultura. Un investimento strutturale da 300 milioni, rilancerebbe la produzione nazionale e la piattaforma pubblica. Ha lanciato un richiamo politico trasversale: ha chiesto al Parlamento (maggioranza e opposizione insieme) di farsi promotore di un’iniziativa condivisa, superando la paura di perdere consensi per l’aumento del canone. Perché “un Paese che ha smesso di investire nella narrazione, ha smesso di esistere nell’immaginario globale.”
Amenta ha offerto un punto di vista specifico e concreto sul Tax Credit e sulle difficoltà delle piccole e medie imprese di produzione. AGICI rappresenta circa 100 società 100% italiane, escluse dai grandi gruppi internazionali che si sono accaparrati buona parte dei fondi previsti dalla Legge Franceschini. Ha denunciato la disuguaglianza nell’accesso ai finanziamenti: “Fino a un paio d’anni fa c’erano fondi per tutti, ora i piccoli stanno morendo.”
Ha descritto gli effetti della riforma 2023 e i rischi attuali: Il nuovo decreto ha già portato molte aziende a chiudere. Oggi, con le modifiche proposte al Tax Credit, il rischio è la fine dell’intero settore audiovisivo italiano, non solo delle piccole realtà. Ha espresso preoccupazione per la concorrenza estera: le produzioni straniere in Italia potrebbero continuare a ricevere vantaggi illimitati, mentre quelle italiane sarebbero state penalizzate. Questo potrebbe costringere molte produzioni a tornare a girare all’estero (es. Romania). Ha criticato l’articolo 26 della proposta attuale, che avrebbe vietato la compensazione dei crediti con INPS e INAIL, colpendo duramente soprattutto le piccole imprese con meno accesso al credito bancario. Ha concluso con un appello all’unità tra politica e operatori del settore, per difendere un comparto culturale e industriale essenziale per l’identità del Paese.
Caruso, è intervenuto come portavoce di Confartigianato in sostituzione del presidente Corrado Azzollini, e ha portato un intervento chiaro e pragmatico, centrato sulla necessità di coesione e trasparenza nel settore. Ha descritto la crisi profonda del settore: lavoratori, autori, attori, ma anche piccoli e medi imprenditori sono arrivati allo stremo. Siamo arrivati a un “minuto a mezzanotte” per l’intera filiera. Ha evidenziato la mancanza di unità: troppe divisioni tra le associazioni, ognuna è rimasta chiusa nei propri interessi. Solo ora che la crisi ha colpito tutti, si è compresa la necessità di un fronte comune. Ha denunciato l’assenza di dati certi: il settore non ha avuto un osservatorio ufficiale. Non si è saputo quanti lavoratori siano stati impiegati, per quanto tempo e in quali condizioni. Questo ha reso impossibile legiferare con efficacia e ha alimentato la confusione. Si è espresso contro l’ideologizzazione del cinema: “Il cinema non è né di destra né di sinistra. È un’arte che racconta storie per tutti.” Ha richiesto una regolamentazione delle piattaforme: servono norme chiare e allineate agli altri paesi europei. Il settore, infatti, ha operato in una situazione squilibrata e poco protetta. Ha individuato la distribuzione come punto critico: anche con un tax credit efficiente, senza un accesso reale al mercato distributivo, il cinema indipendente ha rischiato di scomparire. Le opere prime e seconde non hanno trovato spazio, né pubblico. Caruso ha auspicato che lo spirito di collaborazione emerso durante questi Stati Generali possa diventare struttura permanente di confronto, costruendo una vera voce unitaria per tutto il comparto audiovisivo.
Ha portato l’intervento più potente, performativo e politico dell’intera plenaria. È salito sul palco con una scenografia d’impatto: lavoratori al suo fianco e 30 secondi di silenzio. Ha denunciato con forza la situazione vissuta dai tecnici e dalle maestranze del settore negli ultimi due anni.
Il silenzio durato due anni è stato simbolico: “Questa è stata la nostra unica colonna sonora.” Ha indicato la crisi come responsabilità politica, non come fatalità: “Non chiamatela crisi. Chiamatela responsabilità.” Ha denunciato due crisi: Politica: tagli insensati alla cultura, gestione opaca del tax credit, attacchi mediatici, delegittimazione del settore. Coscienza interna: ha accusato associazioni di categoria e sindacati (AANICA, APA, CNA, CGIL) di collaborazionismo e immobilismo. “Avete preferito il quieto vivere alla battaglia per la dignità del lavoro.” Ha sollevato una denuncia sociale: molti lavoratori del cinema oggi si sono trovati a fare altri mestieri (officine, benzinaie, aeroporti) per sopravvivere, con professionalità disperse e ignorate. Ha lanciato una critica feroce alla narrazione dominante: “Ci avete fatto diventare una categoria fantasma.” Ha fatto un appello all’arte come dissidenza e resistenza: “Un artista deve per forza essere sempre scomodo. L’arte deve bruciare, non scaldare gli animi compiacenti.”
Richieste concrete e urgenti:
un nuovo Contratto Collettivo Nazionale per i lavoratori;
un’equa distribuzione delle risorse;
un welfare di settore;
un ritorno a progetti culturali e non solo prodotti seriali.
Indelicato ha chiuso con un invito diretto a tutta l’industria: “Se volete davvero salvare il cinema italiano, è tempo che siate scesi tutti dai titoli di testa e venuti finalmente ai titoli di coda.”
Ha tenuto un intervento accorato, politico e strategico, in cui ha denunciato una crisi del settore culturale voluta e pianificata, più che subita. Ha definito la crisi come politica, non economica: Il settore non era in crisi: ha prodotto valore, occupazione, cultura. La crisi è stata provocata artificialmente, come atto punitivo verso un settore percepito come “ostile”. Ha denunciato un attacco sistematico: Non solo con la legge di bilancio, ma con una campagna di delegittimazione iniziata tre anni fa. “Se hai dipinto un settore come il male, poi lo tagli. Ed è esattamente quello che è successo.”
Ha evidenziato il silenzio del settore: Orfini ha sottolineato come molti siano rimasti in silenzio troppo a lungo, lasciando soli coloro che denunciano la deriva (come Unita e altre realtà attive). Ha affermato la necessità di un cambio di passo. Non basta più resistere. È stato necessario passare all’attacco con una visione alternativa del Paese. Ha ribadito che la cultura deve essere al centro di una politica industriale e sociale. Non solo un lusso per ricchi, ma un diritto di cittadinanza. Ha denunciato l’accesso diseguale. È aumentata l’inaccessibilità economica alla cultura: biglietti troppo cari, mancanza di welfare per artisti e creativi, difficoltà a emergere se non si ha una famiglia alle spalle. Ha rivendicato il diritto al fallimento creativo: “Fare arte deve includere il diritto a sbagliare.” “Dove la cultura è stata libera, la democrazia è diventata più forte.”
Ha tenuto un intervento pragmatico e di visione, in cui ha ribadito il ruolo strategico della cultura per Roma, sia in termini economici che sociali, e ha lanciato un appello politico trasversale per salvare il comparto audiovisivo. Ha denunciato la “doppia mazzata”: Hanno smontato il tax credit senza avere un’alternativa pronta, e operato tagli ingenti al fondo cultura nella legge di bilancio. “È un colpo mortale per la filiera, per Roma e per il Paese.”
Ha difeso il tax credit: una scelta strutturale e non emergenziale, pensata per rendere l’Italia competitiva. Smontarlo ora sembra miope e distruttivo. Ha ribaltato la logica economica classica: “Nella cultura è l’offerta a generare la domanda.” Ha portato esperienze concrete: L’Opera Camion e il Cineforum agli Acquedotti hanno dimostrato che la domanda culturale esiste ovunque, anche nelle periferie. Il PNRR è usato per diffondere offerta culturale e rigenerazione urbana, anche fuori dal centro, tramite biblioteche, teatri, musei. Ha sostenuto che la cultura deve essere trattata come un servizio pubblico: “I luoghi culturali sono essenziali come i trasporti o la raccolta dei rifiuti.” Ha affrontato il tema dei cinema chiusi: Non tutti sono tornati a essere sale, ma molti sono stati ripensati come “terzi luoghi”: spazi culturali multifunzionali, sul modello parigino. Ha invocato risorse regionali e statali per rendere possibile questa trasformazione. Ha lanciato un monito sul pericolo della cultura standardizzata “Quando si è persa l’autonomia culturale, si è prosciugato anche il mercato.” Ha sostenuto tutta la filiera creativa e ribadito la necessità di un ecosistema culturale che tutelasse non solo i grandi eventi, ma anche la produzione musicale emergente, il teatro di cintura, le attività amatoriali, la cultura nei quartieri.“Questa battaglia non la possiamo perdere. Dobbiamo salvare il comparto, tutti insieme.”
Ha tenuto un intervento carico di passione civile e militanza culturale, in cui ha denunciato l’abbandono istituzionale, ha collegato le crisi culturali a quelle umanitarie, e ha rivendicato il ruolo attivo e politico dell’arte. Ha aperto con un ringraziamento a Rocca per aver citato la tragedia palestinese, collegandola a un clima diffuso di violenza e assuefazione. “Questo clima di violenza ci ha assuefatti. Anche alla nostra crisi.” Ha ricordato che il cinema è militante e veicolo politico. Ha citato il boicottaggio del film No Other Land, riammesso solo dopo eventi istituzionali. Ha sottolineato che le narrazioni non sono mai state neutre, e che il settore culturale ha il dovere di prendere posizione. Ha denunciato la mancanza storica di tutele. Attori e tecnici non sono mai stati riconosciuti come lavoratori, né giuridicamente né nei diritti fondamentali, fino a poco fa. Ha chiarito che il problema non è nato con l’attuale governo, ma è cronico e trasversale. Ha denunciato anche il silenziamento e la delegittimazione, perché chi si è esposto è stato attaccato dai media e da esponenti politici. Ha lamentato l’assenza di solidarietà e l’isolamento vissuto dagli attivisti culturali. La crisi è concreta e misurabile: basta contare i film saltati e moltiplicare per le maestranze: migliaia di famiglie sono rimaste senza lavoro.
Ha ribadito che investire nella cultura non dovrebbe essere un atto di coraggio: “dovrebbe essere naturale, come il buongiorno al mattino.”
Le due giornate degli Stati Generali hanno rappresentato una rinascita di coesione, e ribadito che il ruolo dell’artista è anche essere inopportuno: Ha citato Salma Baccar: “Il cinema è militanza. Ha concluso con forza: “La cultura è il passaporto per migliorare il mondo.” La militanza culturale di UNITA è gratuita, volontaria, necessaria.
Ha portato un intervento lucido, politico e provocatorio, in cui ha messo in discussione il sistema economico e culturale italiano, e ha chiuso gli Stati Generali con un appello a costruire una legge dal basso. Ha criticato la distribuzione delle risorse pubbliche, confrontato i bonus edilizi e automobilistici con l’assenza di fondi per la cultura. “Dopo la pandemia abbiamo dato il 110% all’edilizia. Ma alla cultura non abbiamo dato niente.” Ha denunciato casi assurdi, come il presepe nazionale finanziato con 1,3 milioni, mentre 73 enti musicali hanno ricevuto in totale la stessa cifra. Ha proposto una legge popolare sugli spazi culturali, ha citato l’art. 71 della Costituzione, e ha lanciato l’idea di raccogliere 50.000 firme. “Possiamo scrivere da soli il nostro futuro.” Ha ribadito che senza piccoli spazi, i grandi non si sarebbero riempiti: “Se non c’è un posto dove fare un concerto domani, tra 10 anni nessun grande spazio si riempirà.” Ha criticato la retorica delle visualizzazioni: “È deprimente sentire parlare solo di visualizzazioni, Spotify, numeri. Che palle.” Ha fatto un appello a tutte le categorie, ricordando l’importanza di restare indipendenti da sigle e partiti. Ha invitato le associazioni a partecipare, invece di usare l’indipendenza come scusa per defilarsi. Ha chiesto che il dialogo continui anche nei mesi a seguire, non solo al prossimo anno.
Ha concluso ringraziando, ricordando che tutto il lavoro è stato svolto gratuitamente, con il contributo di studenti, volontari e docenti, celebrato Unita come modello di resistenza, auspicandone la replicabilità in altri settori culturali.


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