Ted Lasso - L'arte di perdere

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Recensione a cura di...


~ LUCA FERDINANDI

Ci sono molte storie di sport che celebrano la vittoria, il talento eccezionale, l’eroismo di chi riesce a superare ogni ostacolo per raggiungere la gloria. Ted Lasso è una serie che parte da una premessa diversa: raccontare la sconfitta.


E l’incipit è è indicativo: un allenatore di football americano che viene catapultato in un mondo che non conosce, quello del calcio inglese. È una serie che parla di cosa significa perdere e di come affrontarlo. Perdere una partita, perdere il controllo, perdere una persona cara, perdere la fiducia in sé stessi. E, soprattutto, imparare a perdere senza perdersi. A prima vista, Ted Lasso potrebbe sembrare una classica serie sportiva con un coach fuori posto. Ted (Jason Sudeikis, empatico, umano, semplice come i suoi baffi) è un allenatore di football americano del Kansas che viene assunto dalla proprietaria dell’AFC Richmond, Rebecca Welton, per guidare una squadra di calcio inglese. Il motivo? Rebecca vuole distruggere il club per vendicarsi dell’ex marito Rupert Mannion, che lo ama più di ogni altra cosa.

Ma Ted, ovviamente, non sa nulla di calcio. E neanche gli interessa impararlo.


Ciò che Ted porta in squadra non sono tattiche o strategie, ma empatia, ottimismo e un’idea di leadership basata sulla fiducia reciproca. Non gli interessa vincere a tutti i costi. Gli interessa creare un ambiente in cui ogni persona possa diventare la versione migliore di sé stessa.

E qui arriva il primo grande paradosso della serie: Ted è un allenatore di uno sport che non capisce, ma è comunque il miglior allenatore possibile per quella squadra.


La prima stagione di Ted Lasso si chiude con una sconfitta. Il Richmond retrocede.


Ma la serie non tratta questa retrocessione come una tragedia. È solo un momento, un passaggio, una fase della vita. Dopo la partita, Ted raduna i suoi giocatori e pronuncia una frase chiave:


“Rattristiamoci ora, rattristiamoci insieme, e poi facciamo come i pesci rossi. Avanti, sempre avanti.”


Questa mentalità è ciò che distingue Ted Lasso da altre storie di sport. Qui non c’è retorica sulla vittoria a tutti i costi, né il mito del campione solitario che trionfa contro tutto e tutti. La serie insegna che perdere non è la fine, ma un’opportunità per imparare, crescere e costruire qualcosa di più importante del semplice successo.

Uno degli elementi più incisivi di Ted Lasso è il modo in cui tratta i suoi personaggi. Ogni membro della squadra, dello staff e persino della dirigenza ha un percorso personale di crescita, fatto di errori, crolli emotivi e risalite.



Ted Lasso: il leader che non sa tutto


Ted è un leader atipico. Non è un genio della tattica, non ha soluzioni pronte per tutto, e non ha paura di ammettere i propri limiti. Ma, sotto la sua immagine di uomo ottimista e sempre sorridente, si nasconde un dolore profondo. La separazione dalla moglie, il rapporto con il figlio a distanza e, soprattutto, la morte del padre per suicidio sono ferite che Ted cerca di ignorare, finché non è costretto a confrontarsi con esse. La sua evoluzione passa attraverso la terapia con la dottoressa Sharon Fieldstone, che gli insegna una lezione fondamentale: essere gentili con gli altri è importante, ma non bisogna mai dimenticarsi di essere gentili con sé stessi.



Rebecca Welton: la donna che impara ad amare


Rebecca inizia la serie come una donna distrutta dal divorzio, convinta che l’unico modo per vendicarsi di Rupert sia distruggere il Richmond. Ma, grazie a Ted e alla squadra, Rebecca ritrova sé stessa e impara a costruire relazioni basate sulla fiducia, invece che sulla paura.

Uno dei momenti più significativi del suo percorso è la confessione a Ted:

“Ti ho assunto perché volevo che la squadra perdesse. Volevo che fallissi. E ti ho sabotato ogni volta che potevo farlo.”

Questa ammissione segna la sua vera trasformazione. Per la prima volta, Rebecca non cerca di controllare una situazione, ma accetta la sua vulnerabilità e chiede perdono.



Jamie Tartt: il talento che impara a non essere solo


Jamie Tartt è l’archetipo del giovane campione arrogante, convinto di essere il migliore e di non aver bisogno di nessuno. Dietro la sua arroganza c’è il trauma di un padre abusivo, che lo ha sempre trattato con crudeltà, facendogli credere che l’unico modo per sopravvivere sia essere egoista e non mostrare debolezza. Il suo percorso lo porta a capire che la vera forza non è nell’individualismo, ma nella capacità di fidarsi degli altri. Il suo rapporto con Roy Kent, che passa dall’odio al rispetto reciproco, è una delle dinamiche più belle della serie.



Roy Kent: il duro che impara ad aprirsi


Roy Kent è l’opposto di Ted. Sempre imbronciato, duro, cinico, incapace di esprimere le proprie emozioni. Anche in questo caso sotto questa corazza c’è un uomo che ha paura del cambiamento, che non sa chi sia senza il calcio e che deve imparare che la vita continua anche dopo la fine della carriera sportiva. Il suo rapporto con Keeley Jones e con Jamie lo aiuta a capire che mostrare affetto non è una debolezza, ma una forza.



Il calcio in Ted Lasso È una metafora continua della crescita personale. Ogni tattica, ogni scelta, ogni partita diventa un’occasione per imparare qualcosa di nuovo, su sé stessi e sugli altri. Quando Nathan Shelley, inizialmente un assistente insicuro e sottovalutato, diventa un allenatore arrogante e spietato, non è solo una svolta narrativa: è una riflessione su cosa succede quando qualcuno viene ignorato troppo a lungo e poi trova il potere nelle mani sbagliate. E quando Roy decide di allenare Jamie, il suo ex rivale, non è solo una questione sportiva: è il segno di un’evoluzione personale, del superamento dell’ego e della rivalità.



Ted Lasso non parla di sport, ma di esseri umani. Perché perdere fa parte della vita, e il modo in cui scegliamo di affrontarlo definisce chi siamo.

E che, come dice Ted:

“Il calcio è imprevedibile. Proprio come la vita. Ma se ci mettiamo il cuore e restiamo uniti, alla fine avremo fatto qualcosa di importante.”

Senza entrare troppo nel territorio degli spoiler, devo dire che la sequenza finale mi ha lasciato perplesso. Da un lato, carica la tensione in modo importante. Ma dall’altro, si perde nel nulla. C’è uno scontro tra i poliziotti e una folla inferocita, una scena che parte bene, ma si risolve in modo confuso. Vediamo questa folla – inizialmente composta da decine e decine di persone – ridursi inspiegabilmente a gruppetti di dieci o venti persone, che attaccano i poliziotti uno alla volta, una volta spinti all’angolo. Mi è sembrata una scena poco credibile. Poi arriva il momento dei fuochi d’artificio, legati alla celebrazione del nuovo anno. Un’immagine che dovrebbe essere potente, ma che, personalmente, ho trovato un po’ forzata e meta-narrativa. La serie cerca di chiudere con una nota visivamente simbolica, ma, almeno per me, non funziona del tutto.


Nel complesso, ACAB – La serie è un prodotto che consiglio agli amanti del genere. È una storia che pone tante domande, alcune scomode, altre meno. Certo, non sono domande esistenziali, ma riflessioni di una persona che, come me, non conosce davvero il mondo che la serie vuole raccontare

Quindi, la mia domanda finale è: voi cosa ne pensate? Aspetto le vostre opinioni, perché questa è una serie che, per essere capita fino in fondo, merita di essere discussa.

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