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Articolo a cura di...
~ Simone Ferdinandi
Siamo nella pancia buia di un’enorme nave cargo. Attorno a noi c’è una Babele di lingue diverse, uomini e donne che parlano e confabulano. Ci proviamo a fare strada tra le persone, si vede poco e niente. Saliamo, saliamo e saliamo fino a che non vediamo la luce. Su di noi si staglia un’enorme statua in acciaio, la Statua della Libertà, il segno che siamo arrivati in America dopo un lunghissimo e faticosissimo viaggio.
Queste parole, che potrebbero essere tratte dai racconti di qualche nostro parente andato nel Nuovo Mondo in cerca di fortuna, non sono altro che le prime immagini che compongono l’ouverture di “The Brutalist”, l’eccezionale film di Brady Corbet che ha ricevuto 10 candidature agli Oscar, piazzandosi di diritto tra i favoriti assoluti per la prossima edizione. È un’epopea incredibilmente umana, epica quanto intimista, essenziale come gli edifici del movimento artistico che gli da nome ma massimalista come una Chiesa Barocca. È una storia d’immigrazione, d’amore e d’arte, con un titolo che richiama al brutalismo, un movimento architettonico che era duro e grezzo, ma raffinato e preciso. Un qualcosa in cui bisogna saper trovare il bello.
Laszlò Tòth (Adrien Brody) è un geniale architetto Bauhaus, fuggito dall’Europa a causa delle persecuzioni del Terzo Reich. Trovatosi da solo in America cerca di arrangiarsi come può, tra un lavoro saltuario e l’altro, fino a quando non incontrerà Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un uomo ricchissimo che, riconoscendo i suoi lavori, lo terrà sotto la sua ala protettiva, mettendolo a capo di un progetto enorme. In questo contesto dovrà scontrarsi con una borghesia sprezzante e classista che gli ricorderà le persecuzioni subite in Europa.
Il film è girato con una maestria notevole da parte di Corbet, con scelte spesso decise ed eleganti, che danno fortissima personalità al film. Ci sono moltissimi long take, come la scena che apre il film, un uso sapiente dei dettagli e dei totali che dimostrano un gusto molto importante, come la sequenza girata e ambientata in Italia, nelle cave di marmo di Carrara. Molto interessante anche il pesante utilizzo di immagini di repertorio che si fa nel corso della narrazione, immagini che si alternano per introdurti all’America dell’epoca.
Anche dal punto di vista fotografico è stato fatto un lavoro molto importante. Lol Crawley, al secolo Laurie Crawley, è abile a giocare col buio, a creare delle situazioni dove il vedo-non vedo è una parte fondamentale della narrazione. Il film, girato in VistaVision 35 mm, ha un look unico e riconoscibile.
Ma il vero punto di forza del film risiede nelle performance attoriali, su tutte quella di Adrien Brody. Il suo Laszlò Tòth è un personaggio complesso e sfaccettato, che si trincera nei silenzi. Nel corso del film, il volto e lo sguardo di Brody ci raccontano le sofferenze di un uomo che ha visto e vissuto cose orribili, che sente il bisogno costante di zittire i propri demoni interiori tra un bicchiere di whisky e una siringa di morfina. Un’altra performance importante è quella di Guy Pearce, che ci affresca un personaggio compiacente e sorridente quanto viscido e ipocrita.
“The Brutalist” è un film potente, che dipinge un ritratto raffinato di un artista ossessionato con la propria arte, unica vera forma di resistenza nei confronti della guerra e del tempo che passa. Probabilmente la durata monstre (si parla di oltre 3 ore) potrebbe far tremare le gambe a gran parte del pubblico, ma durante la visione si capisce che ogni fotogramma è soppesato e necessario per raccontare quest’epopea umana.
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