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~ MASSIMILIANO AITA
La risposta che dò quando mi chiedono perché ho scelto la professione di avvocato varia a seconda dell’interlocutore.
“Perché volevo cambiare il mondo”, “perché volevo viaggiare per il mondo”, “perché volevo diventare l’uomo più ricco del mondo”.
Vabbè, no dai, l’ultima ci stava bene con le precedenti ma è proprio lontana dal mio modo di pensare.
Quello che mai e poi cambia nella narrazione delle ragioni che mi hanno indotto a
scegliere una delle tre professioni più vecchie del mondo (lascio a voi lettori
l’individuazione delle altre due) è l’individuazione del film che più di ogni altro ha colpito la mia immaginazione nel raccontare l’attività degli avvocati.
Il film è “The firm” di Sidney Pollack (quello de “I tre giorni del condor” per capirci).
“The firm”, non “Il Socio”.
La differenza nella titolazione assume una valenza importante.
Ciò che viene descritto nel film con protagonista Tom Cruise ed illuminato dalla strepitosa presenza di Gene Hackman è sì la parabola di un figlio della Ivy League, di un baciato dalla fortuna ma anche e soprattutto la dinamica interna di uno studio legale.
Dinamica che si dipana tra gelosie, vendette, meschini tentativi di manipolazione e
sopraffazione.
Immagino che molti di voi staranno corrugando la fronte – domandandosi cosa c’azzecchi il Massimiliano che conoscete con un simile contesto.
Beh ragazzi, surprise, surprise.
Quando avevo venti-venticinque anni e sino al 6 giugno 1996 (la data che ha cambiato per sempre la mia vita), chi vi allieta con queste righe era un cinico, figlio di suo padre.
Come diceva mia sorella, all’epoca, rappresentavo un esempio da manuale dell’edonismo reaganiano: l’affermazione personale era il mio alpa ed il mio omega. Voi non lo potete ricordare ma una delle immagini più iconiche di quei tempi fu una copertina di Class con in primo piano Franzo Grande Stevens – immenso avvocato (ricordiamo che fu uno dei difensori d’ufficio delle Brigate Rosse nel processo al c.d. “Nucleo Storico”; processo macchiato indelebilmente dall’assassinio di uno dei miei eroi civili, l’Avvocato Fulvio Croce).
Potete dunque ben immaginare come io abbia vissuto il bagno di realtà cui mi costrinse “The firm”.
Gli avvocati potevano essere corrotti, malvagi.
Vedete, io sono nato e cresciuto in una famiglia della media borghesia in cui il rispetto per la legge, il dovere erano dei mantra ripetuti ogni giorno con intensità mai venuta meno.
Per me essere onesti non rappresentava una scelta; era scritto nel mio Dna.
E l’idea che avevo io dell’avvocato era quella di diventare famosissimo ma sempre nel pieno rispetto delle regole e dell’etica.
Regole ed etica che “The firm” illustra con dovizia di particolari – per poi gettarle nel water.
Indimenticabile è la scena in cui Tom Cruise e Gene Hackman spiegano ad un cliente come fare ad eludere il pagamento delle tasse – guadagnandoci.
E’ tutto perfettamente legale sotto ogni profilo; solo che l’animus (come diciamo noi che esercitiamo il meretricio intelllettuale) sottostante gronda di illegalità
Ed infatti il cliente è un amico degli amici: la potente famiglia Moroldo.
“The firm” racconta la professione legale per com’è: senza sconti, senza indulgenza.
Fare l’avvocato non è facile; spesso hai a che fare con l’ingratitudine ma è quanto di più appagante tu possa trovare al mondo se vuoi appartenere al “lato oscuro della forza”.
Certo, certo, lo so che voi obietterete a questa mia affermazione – invocando pietre miliari del cinema quali, tra i molti film dedicati all’argomento, “Il buio oltre la siepe” o – per venire a tempi più recenti – “Erin Brockovic”.
In realtà, se ponete attenzione a quest’ultimo film, l’epilogo appare ben poco
soddisfacente: al di là dell’affermazione del principio della responsabilità della Società inquinatrice, ai clienti dello Studio di Erin arrivano pochi spiccioli.
Perché?
Perché prima l’avvocato deve ottenere quanto gli spetta.
Idealismo sì ma con juicio.
D’altronde è proprio il pagamento dei compensi degli avvocati che offree a Cruise il là per elaborare il proprio perfetto piano per ottenere l’incriminazione dello studio, la benevolenza dei Moroldo ed evitare di diventare un testimone protetto.
Un’idea geniale che solo un avvocato quale Grisham (l’autore del libro da cui è stato tratto il film) poteva escogitare.
Ogni volta che rivedo “The firm” torno indietro nel tempo, torno a quando ero un giovane uomo pronto a divorare la vita, a conquistare il mondo, a…a fare tante cose.
Cosa è successo a quel giovane uomo?
Ha vissuto.
E la vita cambia le prospettive.
Cominci a riflettere se valga la pena continuare a pigiare sull’acceleratore, se passare sopra tutto e tutti valga il biglietto.
Alla fine sapete bene che ho concluso di no.
E quindi l’immersione in “The firm” rappresenta per una persona come me un bagno di nostalgia ma senza rimorsi o rimpianti.
Rimorsi e rimpianti che invece affliggono Gene Hackman.
Mio Dio, ragazzi.
Che attore immenso.
Che intensità di recitazione; che capacità di trasmettere tutte le emozioni del personaggio che incarna sullo schermo come se fossero proprie.
I suoi sguardi, i suoi gesti – anche quelli apparentemente goffi od eccessivi – offrono la risposta adeguata ad ogni interrogativo che il suo personaggio si trova ad affrontare.
Sapete no che il secondo Stanislavsky aveva abbandonato la tesi dell’immedesimazione completa dell’attore nel personaggio – elaborando una nuova prospettiva sinteticamente denominata de “le azioni fisiche”.
“Cosa farei io dal punto di vista dell’agire se mi trovassi a vivere la situazione in cui si trova il personaggio?”.
Ecco Hackman in “The firm” va oltre Strasberg e riesce ad esprimere con le azioni tutto l’universo emotivo del personaggio.
Dovreste vederlo tutti “The firm” per molte ragioni.
Una è per imparare ad essere un attore.
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