Thunderbolts*: Quando il nulla cerca di diventare qualcosa

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Articolo a cura di...

~ LUCA FERDINANDI

Thunderbolts è il classico film in cui, apparentemente, “sta per succedere qualcosa”… e poi non succede niente. O meglio: tecnicamente succede tutto in meno di 24 ore (a parte un prologo che sembra incollato lì come slide introduttiva di PowerPoint), ma la sensazione è che sia un’intera stagione di una serie Marvel condensata in due ore di… pausa. Il film parte da un’idea affascinante: mettere insieme un gruppo di antieroi problematici, umanamente fallati, tenuti insieme più da circostanze esterne che da un vero legame. Sulla carta è una bomba. Sulla pellicola, è come guardare una cena di parenti che non si parlano da anni ma sono costretti a dividere il tavolo. Solo che invece del tacchino c’è un mostro cosmico con il potere di cancellare la realtà.

Cosa non funziona? Quasi tutto quello che dovrebbe dare ritmo.

Il film è lento. Ma non lento da “ti costruisce la tensione”. Lento da “stai aspettando che la scena finisca per passare alla prossima, sperando che lì succeda qualcosa di più interessante”. Il problema è che questo ritmo compassato nasce da un tentativo – quasi commovente – di farci affezionare a un gruppo di personaggi che, per gran parte del pubblico, sono mezzi sconosciuti. Solo che invece di dar loro profondità, li appiattisce. Inseguono l’empatia a colpi di dialoghi forzati e interazioni meccaniche, mentre la trama si accartoccia su sé stessa.

E poi c’è Sentry. L’uomo con la potenza di “mille soli esplosivi”. Bob, per gli amici, viene buttato dentro come Deus Ex Machina con sindrome dissociativa e l’arco narrativo più accelerato dell’MCU. Si sveglia in un forno, si lega emotivamente a degli sconosciuti, si sacrifica per loro, si fa plagiare da una donna in tailleur in meno di un pomeriggio, e poi – come da manuale – si trasforma in Void, cioè l’ombra dell’ombra di un villain interessante.

La battaglia finale? Un loop di déjà vu. Manhattan di nuovo sotto attacco, di nuovo avvolta nell’oscurità (la vera vittima dell’MCU è l’urbanistica di New York). Il conflitto si risolve entrando “nella mente del mostro” e convincendolo con una seduta collettiva di auto-aiuto. Un incrocio tra Inside Out e la scena della madre in Batman v Superman, ma con meno convinzione. A salvare la baracca, giusto Florence Pugh, che anche quando il film deraglia riesce a tenere a galla il suo personaggio con un minimo di credibilità emotiva. E il padre, Alexei, che dovrebbe essere la spalla comica ma pare uscito da un cabaret sovietico anni '80 con battute che oscillano tra il cringe e la tristezza esistenziale.

Il risultato è un film che non osa, ma cerca disperatamente di farsi prendere sul serio. E quando prova a fare il contrario, a strizzare l’occhio, inciampa nel suo stesso cinismo. Thunderbolts non è male, ma non è detto che sia un bene. È un film che sembra avere paura di raccontare qualcosa davvero: troppo controllato per essere anarchico, troppo generico per essere profondo. È un’operazione di passaggio, un trampolino che non sa dove vuole far atterrare i suoi personaggi.

E forse è proprio questo il punto: un film Marvel che si dimentica di avere un’identità. E quando provi a farne una a suon di trauma e battutine, senza costruzione, ti ritrovi con un gruppo di ex-supersoldati e una minaccia cosmica... e nessuna ragione per tifare per l’uno o per l’altra.

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