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~ LA REDAZIONE DI RC
Colleferro, 6 settembre 2020. Ore 3.15. Willy Monteiro Duarte, 21 anni, viene ucciso in 40 secondi. Quaranta secondi netti tra una lite per una parola di troppo e un pestaggio a sangue, mentre cercava di fare la cosa giusta: difendere un amico. Da questo evento tragico e reale, 40 secondi costruisce una narrazione corale e stratificata che attraversa le 24 ore precedenti all’aggressione, per raccontare come ci siamo arrivati. Il film è una mappa. Una mappa che unisce le traiettorie di personaggi diversi: ragazzi, famiglie, periferie, rabbie, illusioni, legami spezzati, e li fa convergere in quel punto preciso, a quell’ora, in quella strada. Il film segue una forma a incastro: un ping-pong temporale che torna e ritorna sul momento dell’omicidio, per poi allargarsi in flashback che raccontano le 24 ore prima dell’accaduto. Questo andamento ritmico, quasi da countdown al contrario, è fondamentale per restituire la tensione e il senso d’inevitabilità. Ogni linea narrativa ci mostra un punto di vista, ma non si tratta di una semplice somma di storie. Sono frammenti di un’Italia minore, che finiscono per incontrarsi (o scontrarsi) in una tragedia concreta.
Willy è raccontato attraverso uno sguardo sobrio, quasi documentaristico. È l’unico dei personaggi con un futuro chiaro davanti, un lavoro in un ristorante stellato, una giornata appena trascorsa che profumava di orgoglio. Non è un eroe: è un ragazzo qualunque che fa la scelta giusta, e per questo diventa la vittima. Maurizio è il personaggio più inquieto: gira con un braccio rotto, vittima di una frustrazione che gli corrode dentro. È manipolabile, arrabbiato, pieno di vuoti. Il suo punto di contatto con la tragedia è Cosimo, figura ambigua legata ai gemelli.
Michelle ha deciso di chiudere con Cristian e andarsene a Parigi. È forse la figura più lucida, ma è anche parte del fragile equilibrio che si spezza quella notte. I fratelli Lorenzo e Federico, interpretati come fossero corpi alieni, macchine, “cyborg” biondi e inespressivi. La loro simbiosi è inquietante: sono creature ibride, sembrano uscite da un film horror o da una distopia urbana. La loro violenza non è rabbia: è automatismo. Il film si muove attorno a una serie di temi concreti e disturbanti, senza costruirci sopra tesi morali o retoriche. Alfieri mostra e lascia che siano le immagini, i dialoghi e i silenzi a parlare.
Il titolo non è solo un riferimento al tempo. 40 secondi è anche la misura di quanto può essere breve e assurdo il passaggio da una notte d’estate a un omicidio. Non c’è un piano, non c’è un motivo. Solo una reazione a catena di fragilità, orgoglio malato, cultura dell’umiliazione e della sopraffazione. I personaggi maschili del film vivono un costante bisogno di “dimostrare” qualcosa. Il controllo, il rispetto, la forza. La loro identità è costruita attraverso lo scontro, la reputazione, l’apparenza. L’atto estremo, il pestaggio, è l’apice distorto di questo meccanismo.
In controluce, Alfieri mostra una gioventù che fatica a vedere oltre il presente. Mentre Willy è proiettato verso un domani possibile, gli altri sono bloccati: dentro case silenziose, relazioni in crisi, famiglie che non sanno più parlare. Il degrado non è tanto economico, quanto affettivo ed esistenziale. Il film insiste su un punto chiave: nessuno avrebbe dovuto essere lì. Eppure ci sono arrivati. Per caso? Per sbaglio? Per scelte piccole, apparentemente insignificanti. Questa riflessione sul destino – costruito più che subìto – è una delle vene più amare del film.
40 secondi è un film sulle condizioni che rendono possibile che un ragazzo venga ucciso in mezzo alla strada, davanti ad altri, in pochi secondi. Alfieri non cerca eroi né mostri. Racconta una tragedia italiana attraverso i corpi, gli sguardi, le azioni quotidiane che precedono un evento irreparabile. E lo fa con un’urgenza narrativa che pulsa sotto ogni scena.

Michelle: Beatrice Puccilli
Cristian: Daniele Cartocci
NOTA A MARGINE: E' UN DIALOGO IN ROMANO
Michelle: Quindi questa è l’idea tua idea de cena romantica?
Cristian: Doveva esse na cena romantica. Me pare che è diventata ‘na cena d’addio.
Michelle: Ah si?
Cristian: Così hai voluto te.
Michelle: Questa è la parte più bona.
Cristian: Ma che te magni, la crosta? Ma questa ma te fa veni i tumori.
Michelle: Me la mangio io, stai fermo
Cristian: Dalla ar gatto questa. Magnate la parte morbida
Michelle: E’ una cosa allucinante, scusa…
Cristian: Magnate la parte morbida!
Michelle: Lascia sta non c’ho più fame.
Cristian: Ma che non c’hai fame, magnate questa che è…
Michelle: No, no..
Cristian: Ao e fidate, questa non te fa male! Mamma mia devi sempre fa la testarda, è?
Michelle: Comunque io te l’avevo detto de venì con me.
Cristian: Ma il problema non è che io devo venì con te. Il problema è che là te, proprio non ce dovevi annà.
Michelle: Che vorresti dì scusa, in che senso non ce dovevo annà?
Cristian: Ma io non ho capito, che è sta fissa, sta smania che c’avete tutti che se uno nasce in un posto piccolo allora se ne deve annà per forza. Ma che v’ha fatto de male il paese a voi?
Michelle: A Cri, non voi capì che qua la gente passa il tempo a dì: “Che famo, che non famo, penso che…” E poi alla fine non si fa mai niente, non se fa mai un cazzo.
Cristian: Ma non te pensà, perché pure in città è la stessa cosa. Na vorta che te sei fatta tutti i cinema, tutti i negozi, tutti i locali… si, fai sempre e stesse cose. Che poi fate tutti i fenomeni, ma ve vojo vedè se ve piace, a spenne più sordi, a respiravve lo smog, a favve venì un ictus per quanto se core.
Michelle: Nun ce la fai proprio…
Cristian: A Michè, io qua ce so nato. Ce stanno tutti gli amici mia. E qua vojo morì. Se te te ne voi annà che cazzo te devo dì. Và. Però non te pensà ch et’aspetto per tutta la vita è. Poi tra l’atro quanno se semo messi insieme me potevi pure avvisà che eri così.
Michelle: Ma così come Cri, ma che cazzo stai dicendo?
Cristian: Me spieghi che cazzo de bisogno c’è de annà davanti a tutti e di: “Mò vado a studià Pantensonbon”
Michelle: Perché se chiama Pan…
Cristian: Ma chiamala come a chiama a gente normale! Furbona! Invece no, me devi fa sentì un coglione.
Michelle:Forse sei un coglione veramente.
Cristian: Ah, quindi mò me insulti pure?
Michelle: Lascia sta.
Cristian: No, lascià stà. Dimme quello che pensi.
Michelle: Penso che sei uno che vole dì alla ragazza sua come se deve vestì, come deve camminrà, quello che deve magnà, quello che non deve magnà, dove passare la cazzo di vita SUA. Questo penso.
Cristian: E’, mbè?
Michelle: Mbè, me lo dovevi di te che eri così. Portame a casa. Pija le cose, portame a casa.
Cristian: Ma ndo cazzo vai, o. Aspetta! Dai, tornamo là. Ma perché devi fa così, me lo spieghi?
Michelle: Non capisci.
Cristian: Ma che… non c’è niente da capì. Stamo qua, stamo a parlà, mò devi fa tutta la cosa.
Michelle: Non capisci, non capisci!
Cristian: Che devo capire, me lo spieghi?
Michelle: Che qua non ce devi ave paura de morì. Sei già morto! Va a pija le cose tue.
Michelle e Cristian sono due ragazzi di provincia, apparentemente una coppia, ma in realtà già lontani. Lei sta per partire per studiare a Parigi, lui resta dov'è nato e dove vuole restare. La scena è ambientata all'aperto, mentre mangiano, un momento che dovrebbe essere quotidiano, semplice. Ma proprio in quella normalità esplode la frattura. Il tono iniziale è ironico, sarcastico, quasi affettuoso. Ma in pochi scambi, la tensione si alza. Non tanto per cosa si dicono, ma per come: attraverso frasi spezzate, interruzioni, frustrazioni represse che diventano accuse. “Ma che te magni, la crosta?”; “Me la mangio io, stai fermo”.
L’attacco non è verbale, è pratico: Cristian corregge, controlla, decide. Il fastidio si percepisce: c'è qualcosa che trabocca già dalle briciole. Questo primo momento serve per farci entrare nella relazione: una dinamica diseguale, dove Cristian detta il tono e Michelle lo subisce, finché non lo rimanda indietro. “Comunque io te l’avevo detto de venì con me.” “Il problema è che là te, proprio non ce dovevi annà.”
Qui il nodo si stringe: non si tratta più di una cena andata storta, ma di scelte di vita. Michelle rappresenta il desiderio di andarsene, esplorare, cercare qualcosa di diverso. Cristian incarna invece l'attaccamento al luogo, ma anche una certa resistenza all’evoluzione. L’argomento diventa ideologico. “Che v’ha fatto de male il paese a voi?” “Qua la gente pensa e non fa mai un cazzo.” È un duello tra due visioni opposte. Michelle non odia il paese: odia la stagnazione. Cristian non è un retrogrado: ha paura di perdere ciò che conosce. Ma nessuno dei due riesce davvero ad ascoltare l’altro.
“Penso che sei uno che vole dì alla ragazza sua come se deve vestì, come deve camminà, quello che deve magnà…” Michelle arriva al punto: non è solo la provincia il problema, è il controllo. Cristian cerca di incastrarla in una forma che gli garantisca sicurezza, prevedibilità. Lei invece cerca libertà, non solo geografica ma esistenziale. Il momento più forte arriva alla fine: “Qua non ce devi ave’ paura de morì. Sei già morto.” È una frase che chiude tutto. E non è una provocazione: è un giudizio esistenziale. Michelle vede in Cristian qualcuno che ha rinunciato, che si accontenta di una vita che non lo interroga più.
Cristian esercita un controllo quasi inconscio: sul cibo, sulle decisioni, sulle scelte future.
Michelle gli sbatte in faccia questa sua necessità di dominio, travestita da “preoccupazione” o “amore”. È una forma di mascolinità possessiva e insicura, quella che pensa di “perdere” qualcuno se non lo trattiene. Michelle incarna il bisogno di andare altrove. Cristian incarna la paura del cambiamento. E’ uno scontro tra azione e stasi, tra movimento e ristagno. Cristian è rimasto al punto di partenza, Michelle sta cercando un altrove. Ma lui non lo vive come un’evoluzione, bensì come un abbandono personale. Qui emerge una frattura emotiva profonda: non parlano più la stessa lingua, e il dialogo diventa fallimento comunicativo.

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