Ben-Hur (1959) – Il kolossal come rito, lo spettacolo come redenzione

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~ LA REDAZIONE DI RC

Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.

Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.

Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.

Il film di oggi è...

Ben Hur (1959)

Nel 1959, Ben-Hur arriva nelle sale come una delle più grandi imprese produttive nella storia del cinema hollywoodiano. Diretto da William Wyler, prodotto dalla MGM con un budget titanico per l’epoca, girato interamente in 70mm con migliaia di comparse, scenografie monumentali e una colonna sonora epica, il film è da subito un evento.

Ben-Hur è anche una storia di vendetta e redenzione, costruita su una struttura narrativa che alterna il melodramma privato al grande affresco storico-religioso, e che usa il corpo dell’attore, lo spazio scenico e il movimento delle folle per costruire un cinema del rito, della passione, della trasformazione.

La trama: un uomo spezzato, un mondo in crisi

La vicenda si svolge nel I secolo dopo Cristo, nella provincia romana della Giudea. Judah Ben-Hur (Charlton Heston) è un nobile ebreo di Gerusalemme, ricco, rispettato e legato da un'antica amicizia con Messala, ufficiale romano appena tornato da Roma con incarichi di potere.

Ma la loro amicizia si spezza quando Messala, convinto di dover reprimere ogni dissenso, chiede a Ben-Hur di tradire i suoi compatrioti. Al suo rifiuto, Messala si vendica: fa arrestare Ben-Hur, condanna la madre e la sorella, confisca i beni di famiglia.

Inizia così un lungo calvario. Ben-Hur viene incatenato come schiavo su una galera. Durante una battaglia navale, riesce a salvare il console romano Quintus Arrius, che lo adotta e gli restituisce rango e libertà. Ma Ben-Hur vuole solo una cosa: ritrovare la sua famiglia e vendicarsi di Messala.

Il momento centrale del film è la corsa delle bighe, in cui i due ex amici si affrontano in una gara violenta e spettacolare. Ben-Hur vince, e Messala muore. Ma la vendetta non porta pace. Solo nel finale, quando ritrova la madre e la sorella malate di lebbra e assiste alla crocifissione di Cristo, Ben-Hur comprende il significato del perdono e della compassione.

Charlton Heston e la fisicità del protagonista

Charlton Heston incarna Ben-Hur con una presenza scenica dominata dal corpo, dalla resistenza, dal silenzio carico di intensità. Il suo volto scolpito, la sua voce profonda, la sua capacità di esprimere forza anche nella sofferenza rendono il personaggio una figura archetipica del cinema classico americano: l’eroe ferito, ma intransigente; il giusto che attraversa l’oscurità senza piegarsi.

Heston non interpreta un personaggio “interiore” nel senso moderno del termine. Piuttosto, rende visibile la trasformazione morale attraverso l’azione, attraverso lo sguardo, la postura, l’opposizione fisica al mondo che lo vuole annientare.

Il suo Ben-Hur non è santo né martire, ma un uomo che deve perdere tutto per poter rinascere. Il film è il suo percorso di purificazione.

La regia di Wyler: tra intimità e monumentalità

William Wyler, regista di origini europee e autore di numerosi drammi raffinati (La signora Miniver, I migliori anni della nostra vita), affronta Ben-Hur come un'opera doppia: da un lato, un film monumentale; dall’altro, un racconto personale di caduta e redenzione.

La regia alterna momenti di grande intimità – primi piani, silenzi, attese – a scene di massa costruite con un rigore straordinario. Le folle non sono sfondo, ma elemento narrativo attivo, come nella scena della Via Crucis, dove l’anonimato del popolo diventa personaggio collettivo.

Wyler gira in 65mm (poi distribuito in 70mm) per sfruttare al massimo la profondità di campo, la nitidezza dei dettagli, l’impatto visivo delle scenografie. Ma non si perde mai nello spettacolo fine a sé stesso. Ogni scena ha una precisa funzione emotiva e narrativa.

La corsa delle bighe: una lezione di cinema

Il momento più iconico del film – e uno dei più celebri della storia del cinema – è la corsa delle bighe. Girata in 5 settimane negli studi di Cinecittà su una pista gigantesca ricostruita per l’occasione, è un capolavoro di regia, montaggio, ritmo e messa in scena fisica:il suono degli zoccoli, delle ruote, del respiro. La macchina da presa si avvicina ai volti, insegue le traiettorie, costruisce una tensione crescente che culmina nella caduta di Messala. La sequenza è così potente perché unisce la fisicità reale dell’azione alla carica simbolica del confronto: non è solo una gara, è la battaglia tra oppressore e oppresso, tra tradimento e giustizia.

Cristo fuori campo: il sacro senza enfasi

Uno degli aspetti più affascinanti del film è la presenza costante ma mai invadente di Cristo. Non viene mai mostrato in volto. Lo si vede di spalle, in lontananza, oppure riflesso negli occhi di chi lo guarda. Wyler sceglie di non “rappresentare” il divino, ma di evocarlo, con una delicatezza narrativa che evita la retorica.

Cristo nel film non predica, non giudica, ma compie gesti essenziali: porge l’acqua a Ben-Hur, si lascia crocifiggere, e con la sua morte “guarisce” – anche simbolicamente – la famiglia del protagonista. È una presenza silenziosa ma determinante, che trasforma la vendetta in compassione.

Il messaggio religioso è chiaro, ma passa attraverso l’esperienza umana, non attraverso sermoni. Ben-Hur è un film cristiano, ma più spirituale che confessionale.

Un kolossal senza tempo

Nel 1960, Ben-Hur vince 11 premi Oscar, un record che verrà eguagliato solo da Titanic (1997) e Il Signore degli Anelli: Il ritorno del Re (2003). Tra i premi: miglior film, miglior regia, miglior attore, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior montaggio.

Ma oltre ai riconoscimenti, è l’impatto culturale a contare. Il film segna il picco massimo del genere kolossal storico-religioso, che aveva dominato Hollywood tra gli anni ’50 e ’60. Dopo Ben-Hur, il genere non sarà mai più lo stesso: troppo costoso, troppo difficile da superare.

Eppure Ben-Hur è rimasto nella memoria collettiva anche al di là del genere. Perché il suo racconto parla di questioni ancora vive: il potere, la vendetta, il perdono, la fede nella possibilità di cambiare.

Un’opera totale, tra corpo e spirito

Ben-Hur è una sintesi perfetta tra arte cinematografica e immaginario epico. È un’opera che fonde la tragedia greca con la parabola cristiana, l’azione con la riflessione morale.

Ogni elemento – la scenografia, le interpretazioni, la musica di Miklós Rózsa, la fotografia di Robert Surtees – lavora per creare un’esperienza collettiva. E se oggi il cinema tende all’individualismo o alla serialità, Ben-Hur ci ricorda cosa poteva essere il cinema quando raccontava la storia di un uomo per parlare a milioni di altri uomini.

La vendetta, in questo film, non è mai il punto d’arrivo. È solo il passaggio necessario verso la comprensione più profonda dell’altro e di sé stessi. In questo, Ben-Hur è ancora attualissimo. Non perché racconti un’epoca lontana, ma perché sa mettere in scena la battaglia eterna tra giustizia e rancore, tra odio e riconciliazione.

Un film che mostra la grandezza non nelle dimensioni, ma nel respiro morale e umano della sua storia. E che, nel farlo, ha inciso il proprio nome nella pietra del cinema universale.

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