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~ LA REDAZIONE DI RC
Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.
Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.
Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.
Il film di oggi è...
Quando nel 1940 esce Furore (The Grapes of Wrath), diretto da John Ford e tratto dal romanzo omonimo di John Steinbeck, l’America è ancora nel pieno delle ferite lasciate dalla Grande Depressione. Il Dust Bowl, il crollo economico, le migrazioni interne, la disoccupazione: tutto questo non è storia passata, è presente. E Furore è il primo grande film hollywoodiano che mette la miseria sullo schermo con lo stesso sguardo epico riservato agli eroi del West.
È un film che parla di una famiglia in viaggio, di dignità, di sopravvivenza, ma lo fa con una forma asciutta, classica, quasi biblica. Ford, noto per i suoi western, qui si mette al servizio di un’America che non cavalca verso il tramonto, ma cammina nella polvere, in silenzio, alla ricerca di un futuro che non è mai garantito.
Furore non è solo una storia di povertà: è una parabola sulla resistenza umana, sulla giustizia sociale, sulla capacità di restare umani anche quando tutto intorno sembra volerlo negare.
Il protagonista è Tom Joad (Henry Fonda), un ex carcerato che torna a casa in Oklahoma dopo aver scontato quattro anni per omicidio. Ma non trova più nulla: la sua famiglia è stata sfrattata dalla loro fattoria, distrutta dalle tempeste di sabbia e dalle politiche delle banche che stanno svuotando il Midwest. Tom si unisce alla sua famiglia – i genitori, i fratelli, la nonna, il nonno – che ha deciso di partire per la California, attratta da volantini che promettono lavoro nelle piantagioni. Inizia così un viaggio lungo la Route 66, insieme ad altre migliaia di famiglie come loro: profughi interni, disoccupati, disperati.
Ma la California non è il paradiso. È un luogo dove i nuovi arrivati vengono accolti con diffidenza, sfruttati, umiliati. La famiglia Joad affronta fame, lutti, minacce, in un crescendo di tensione e disillusione. Tom, segnato da un nuovo atto di violenza – l’uccisione di un ex predicatore, Jim Casy, che aveva abbracciato la causa dei lavoratori – decide di fuggire e di vivere nell’ombra, dedicandosi alla lotta per la giustizia sociale. La madre, Ma Joad, rimane a guidare la famiglia, incarnando la forza silenziosa del popolo.
Il film si chiude con una delle scene più emblematiche del cinema americano: Tom, in fuga, dice addio a sua madre con un monologo diventato leggenda. “Wherever there's a fight so hungry people can eat, I'll be there...” (“Dovunque ci sia una lotta perché la gente affamata possa mangiare, io sarò lì…”). È una dichiarazione d’appartenenza universale, un testamento morale.
Furore è un film che lavora su più livelli. È una storia sociale, certo, ma anche un racconto morale, quasi spirituale. I Joad non sono solo una famiglia: sono l’incarnazione di un popolo in cammino, di un’umanità che non si arrende. Il tema centrale è la dignità. La povertà non è solo materiale: è una condizione che minaccia l’identità, la solidarietà, la possibilità di sentirsi parte di una comunità. Ford racconta la miseria senza retorica, ma con uno sguardo empatico, attento.
Altro tema cruciale è la giustizia: i padroni, le banche, le forze dell’ordine vengono rappresentati come entità astratte, impersonali, ma capaci di distruggere vite.
Non c’è un villain preciso, perché il nemico è un sistema economico e sociale disumanizzante. E poi c’è la forza della madre: Ma Joad (Jane Darwell) è il vero perno del film. Con la sua calma, la sua resilienza, il suo amore instancabile, rappresenta il cuore pulsante della famiglia, ma anche l’icona della resistenza femminile, silenziosa e ostinata.
Ford gira Furore con un realismo che non è documentaristico, ma poetico. Il bianco e nero di Gregg Toland – uno dei più grandi direttori della fotografia della storia del cinema – restituisce la polvere, la luce, la fatica. Ogni inquadratura ha un senso compositivo rigoroso, ogni ombra racconta un’emozione. Il film alterna campi lunghissimi – la strada, i paesaggi deserti, i campi di tende – a primi piani emotivamente potentissimi, specialmente su Henry Fonda, che qui offre una delle sue interpretazioni più intense. La macchina da presa è discreta, ma sempre partecipe. Ford non indulge mai nel pietismo. Mostra la fame, la stanchezza, la perdita, ma sempre con un senso di sobrietà morale, con uno sguardo che non giudica, ma accompagna. L’epica non nasce dall’enfasi, ma dal ritmo del viaggio, dalla capacità di resistere.
Il momento più famoso del film è il monologo di Tom Joad, poco prima di fuggire. Le sue parole – tratte in parte dal romanzo, ma rese immortali dalla voce di Henry Fonda – sono un testamento di impegno e appartenenza, una dichiarazione politica nel senso più alto:
“Io sarò ovunque ci sia un uomo che lotta per vivere libero... ovunque ci sia qualcuno che resiste, io sarò lì.” E’ una frase che trasforma un uomo in simbolo, che eleva un vagabondo a portavoce della giustizia. Non è un’utopia, ma una promessa. Tom non cerca gloria, cerca una funzione nella lotta comune. E questa frase, pronunciata nel 1940, in un’America lacerata dalla disuguaglianza, risuona ancora oggi con una forza impressionante.
Il film è tratto dal romanzo di John Steinbeck, vincitore del Pulitzer nel 1939. Ma mentre il libro è più ampio, più polemico, più disperato, Ford sceglie un tono più asciutto, più contenuto, quasi spirituale.
Nel romanzo, la fine è ancora più amara, con un’ultima scena durissima (omessa dal film) in cui Rose of Sharon, la figlia incinta, allatta un uomo morente. È un gesto estremo, pieno di significato simbolico, ma troppo radicale per la Hollywood del 1940.
Ford, invece, chiude con un misto di amarezza e speranza, lasciando spazio all’idea che la lotta continui, che qualcosa possa cambiare. È una scelta coerente con il suo sguardo: non nasconde la durezza della realtà, ma mantiene la fiducia nel carattere umano.
Ricezione e impatto
Furore fu un successo di critica e pubblico. Vinse due Oscar: miglior regia per John Ford e miglior attrice non protagonista per Jane Darwell. Oggi è considerato uno dei grandi film americani di sempre. È presente nella lista dell’AFI (American Film Institute) dei 100 migliori film della storia, ed è spesso citato come l’opera che ha trasformato la questione sociale in arte cinematografica.
Il film ha influenzato il cinema successivo, da Easy Rider a Nomadland, ogni volta che la strada diventa racconto, che la povertà diventa poesia, che l’America viene osservata attraverso gli occhi di chi cammina, non di chi comanda.
Furore è un film che non racconta vincitori, ma non celebra nemmeno la sconfitta. Racconta chi resta in piedi, nonostante tutto. È un’epopea senza gloria, ma con una forza morale che attraversa le epoche.
Ford non gira un film politico in senso stretto, ma un film profondamente etico, dove la verità delle cose è raccontata con semplicità e rigore. Dove l’ingiustizia è visibile, ma la solidarietà resiste. E dove il cinema non è solo intrattenimento, ma atto di testimonianza.
La famiglia Joad continua a camminare, e noi camminiamo con loro. In quella polvere, in quella fatica, c’è l’umanità che cerca ancora un posto dove vivere in pace. E il cinema, con Furore, ha trovato un modo per raccontarla senza retorica, ma con il rispetto che si deve ai sopravvissuti.
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