Io, Capitano e le speranze naufragate nel Mediterraneo

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Articolo a cura di...


~ Elena Collini


Dall’Oscar mancato per un soffio alla gaffe del Televideo – passando per le polemiche intorno alla battuta di Ceccherini sul rivale “Zona d’Interesse” - non si contano gli articoli dedicati a “Io Capitano” che rimbalzano da qualche giorno sul web. Dunque c’è altro da scrivere sull’ultima fatica di Matteo Garrone? Sì, e molto. In primis perché la cronaca si concentra sul gossip più che sul cuore del film e poi perché è un’opera che molto ha da dire.

Un grido di speranza


A differenza di “Zona d’interesse” che non lascia scampo allo spettatore e lo inchioda di fronte alla crudeltà umana, “Io Capitano” è un grido di speranza.


Letteralmente un grido di speranza perché il titolo del film riecheggia nell’ultima battuta del protagonista interpretato dall’attore non professionista Seydou Sarr. Una speranza che però non scagiona nessuno dalle responsabilità delle morti nel Mediterraneo, ma che invita a una riflessione collettiva sulla “crisi dei migranti”.


Così, comodamente seduti nelle nostre poltrone, conosciamo Seydou e suo cugino (Moustapha Fall) che decidono di intraprendere “il viaggio”, quello che dalla loro casa in Africa occidentale dovrebbe portarli in Europa, eldorado di possibilità dove sperano di realizzare il sogno adolescenziale di diventare famosi cantanti hip hop. Iniziamo a seguirli passo dopo passo mentre le loro speranze si infrangono insieme all'innocenza infantile di fronte alla brutalità di un’odissea che li porta fino in Libia e poi da lì in Italia, tra trafficanti di esseri umani, poliziotti corrotti e contrabbandieri.


Scritto da Garrone con Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e Massimo Ceccherini, il film s’ispira alle storie vere di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia. Storie dimenticate, appena accennate dai TG, a cui Garrone restituisce dignità e voce, complice la scelta di uno schema narrativo classico, l’Odissea, che da un valore epico al viaggio di migranti, mediamente ignorati dal mondo occidentale che dovrebbe accoglierli.


Se non ci sono sconti nella trama, nel senso che dalla camminata nel deserto alle carceri libiche, non manca nessuna delle atroci tappe della traversata, il film non manca di grazia. La cifra poetica deriva in parte dalla porosità tra il mondo reale rappresentato e la dimensione spiritualeche emerge in alcune sequenze oniriche, una caratteristica questa imprestata del cinema dell’Africa occidentale. In parte dalla fotografia. Lo sguardo della camera non è mai brusco, documentaristico, segnando uno scarto rispetto a precedenti film di Garrone. La fotografia – affidata a Paolo Carnera – infatti riflette il punto di vista dei giovani protagonisti e si avvale dell’uso della steadycam che Carnera stesso ha definito in un’intervista a Cinecittà news “Un occhio che si muove liberamente, ma che ha anche la dolcezza di un respiro non convulso”.

Lo sguardo di un viaggiatore


Così attraverso i loro occhi vediamo l’abbagliante vastità del Sahara, i colori di Dakar, il grande vuoto del mare, i volti delle persone che incontrano lungo il cammino. Attraverso i loro occhi proviamola speranza di arrivare a destinazione, nella speranza che ognuno di noi senta la responsabilità di non lasciarla naufragare nel Mediterraneo.


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