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~ LA REDAZIONE DI RC
Questa lettera arriva dopo la risoluzione apparente del film. Il killer imitatore è stato fermato, Helen Hudson è viva, la minaccia sembra terminata. Ma Copycat vuole lasciare un dubbio. Ed è proprio questa lettera – scritta da un uomo già condannato, rinchiuso, ma ancora capace di contagiare con le sue parole – a fare da coda perfetta. Cullum, che all'inizio del film è solo l'ombra di un trauma, qui torna a parlare. Con una lucidità manipolatoria da vero predicatore del male. Le sue parole non sono un saluto, ma una benedizione distorta.
MINUTAGGIO: 1:56:00-1:57:00
RUOLO: Daryll
ATTORE: Harry Connick Jr.
DOVE: Netflix
INGLESE
Dear Conrad: Thank you for your letter. Praise the Lord. I know you must be so happy that he chose to spare Dr. Hudson. The big guy moves in mysterious ways, don't he? It just so happens I'm awaiting the arrival... ...of a pair of genuine Helen Hudson undies... ...signed personal to me. A real collector's item, I'm sure you'll know. They're yours. But don't forget, a disciple must be strong... ...if he is to succeed where others fail. Peter strayed from the path and the Lord smote him good. So keep it simple. Then glory is yours... ...and "vengeance is mine"... ...as the Good Book says. I know you'll get my meaning. Happy hunting, partner. Daryll Lee Cullum.
ITALIANO
Caro Conrad, grazie per la tua lettera. Sia lodato il Signore. So che sei molto contento che Egli abbia deciso di salvare la dottoressa Hudson. Lui si muove in modo misterioso. Io sto aspettando l’arrivo di un paio di autentiche mutandine di Ellen Hudson, con una bella dedica per me. Un vero pezzo da collezione, vero? Sono tue. Ma non dimenticare, un discepolo deve essere forte se vuole riuscire dove gli altri anno fallito. Peter aveva abbandonato la retta via e il signore l’ha fulminato. Tu non commettere lo stesso errore. Così come dicono le sacre scritture, la gloria sarà tua e la vendetta sarà mia. So che capirai quello che voglio dire. Buona caccia, Partner. Darryl Lee Collum.
"Copycat – Omicidi in serie", diretto da Jon Amiel nel 1995, è un thriller psicologico che si inserisce in quel filone anni '90 di cinema poliziesco investigativo che gioca con le menti disturbate dei serial killer e le nevrosi degli investigatori. Sulla scia di titoli come Il silenzio degli innocenti e Seven, ma con un taglio leggermente più “procedurale”. La protagonista è Helen Hudson (interpretata da Sigourney Weaver), una psicologa criminale brillante ma profondamente traumatizzata. Dopo essere stata aggredita da uno dei suoi ex pazienti – il serial killer Daryll Lee Cullum (Harry Connick Jr.) – Helen sviluppa una grave forma di agorafobia. Vive rinchiusa nel suo appartamento ipertecnologico, comunicando solo tramite computer o telefono, completamente isolata dal mondo esterno. Quando una nuova serie di omicidi inizia a tormentare la città di San Francisco, la polizia – e in particolare la detective M.J. Monahan (Holly Hunter) – si trova davanti a un caso inquietante: gli omicidi sembrano ricalcare con precisione quelli compiuti da famigerati serial killer del passato come Albert DeSalvo (lo "Strangolatore di Boston"), David Berkowitz (Son of Sam) e Jeffrey Dahmer. Ogni delitto è una replica metodica, quasi accademica, un omaggio malato a chi ha ucciso prima.
Helen, inizialmente riluttante, viene coinvolta come consulente. Il killer si rivela un "copycat", cioè un imitatore. Non inventa, non crea, ma replica: uccide copiando i suoi “modelli” criminali con una precisione maniacale. La tensione psicologica cresce non solo perché il killer è brillante e imprevedibile, ma anche perché Helen stessa diventa un obiettivo.
Il film gioca su due fronti: da una parte c'è la caccia al killer, che segue la classica struttura del thriller investigativo. Dall’altra, c’è il percorso interiore di Helen, bloccata dentro una prigione psicologica fatta di fobie, flashback e senso di colpa. Il personaggio di M.J., la detective, diventa una sorta di estensione esterna della volontà di Helen, portando avanti sul campo ciò che la psicologa non può fisicamente affrontare.
"E’ questo quello che vuoi? Sei arrivato fin qui e dopo la prima brutta giornata vuoi già mollare tutto?" L’apertura è diretta, quasi brutale. Stanley non ha intenzione di consolare. Sta testando la determinazione di Bo. Questa frase è la prima spinta, come se volesse togliergli l’alibi del fallimento precoce. È un modo per provocare una reazione. "Ami questo gioco? Insomma, lo ami con tutto il cuore?" Qui si entra nel nocciolo emotivo. Stanley alza l’asticella: non basta amare il basket “in generale”, serve viverlo come una vocazione. Il cuore, non il talento, è il vero metro di misura. "L’ossessione batte il talento, lo batterà sempre." Questa è la frase. Il manifesto del film. Una dichiarazione che si oppone alla mitologia del “dono naturale”. Per Stanley (e per il film), non è chi ha più talento a emergere, ma chi è disposto a sacrificarsi, a vivere in funzione di quell’obiettivo. Il concetto di ossessione viene elevato a valore, ma attenzione: non viene glorificato. È visto come necessario, sì, ma anche pericoloso, quasi come una malattia che va controllata. "Tu hai tutto il talento del mondo, ma hai anche l’ossessione? È l’unica cosa a cui pensi?" Questo è l’apice della sfida. Stanley vuole capire se Bo è disposto a scommettere tutto. In quella frase c’è la consapevolezza che il talento da solo non basta. È un modo per smascherare la pigrizia emotiva, quella che ti fa fermare al primo ostacolo.
"Quando entri in quel campo, devi pensare io sono il miglior giocatore qui dentro, anche se hai LeBron come avversario." Questa è la parte più concreta: la mentalità da costruire. Non basta esserlo, bisogna crederci. Anche quando l’evidenza dice il contrario. È qui che il monologo passa da essere ispirazionale a strutturale: non ti sta solo motivando, ti sta dando le istruzioni per come sopravvivere a quel mondo. "Te lo chiedo di nuovo, tu ami questo gioco? Vuoi entrare a far parte dell’NBA? Beh, allora diamoci da fare. Mai mollare, chiaro?" Il finale è un cerchio che si chiude. La domanda torna, ma stavolta pretende una risposta. Non c’è più spazio per i tentennamenti. Non è più un incoraggiamento: è una dichiarazione di guerra. O dentro o fuori.
Il monologo finale di Daryll Lee Cullum riapre la ferita che il film sembrava aver chiuso. È il modo che Copycat sceglie per dirci: non pensate che sia finita. Il male non si ferma con l’arresto di un assassino. Perché il male, in questo film, si trasmette come un pensiero, come un’ideologia, come una religione deviata.
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