Monologo Teatrale Maschile - \"Il re muore\" di Eugène Ionesco

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Siamo nel cuore de "Il re muore" di Eugène Ionesco, e questo monologo di Bérenger I arriva quando ormai la fine è imminente. È il momento in cui il personaggio, privo di difese, si rivolge a qualcosa che è al di sopra e al di fuori: il Sole, il Cosmo, i morti, la memoria, l’umanità tutta. È il culmine della sua resa, ma anche un ultimo disperato tentativo di negoziazione con la morte. Il tono oscilla continuamente tra la supplica e la confessione, tra la disperazione e un’eco teatrale che si spezza in una frase disarmante: "faccio soltanto della letteratura". Una frase che frantuma la finzione scenica e rende questo flusso di coscienza qualcosa di profondamente vicino a chi guarda o legge. Non c'è un solo registro emotivo qui: ci sono strati di paura, egoismo, nostalgia, cinismo, bisogno.

Faccio soltanto della letteratura

Come fare? 

Non è possibile, oppure nessuno vuole aiutarmi. Io stesso non posso aiutarmi. 

O sole, o sole mio, aiutami tu, fuga le ombre, dissipa la notte. Sole, sole, rischiara tutte le tombe, entra in tutti gli angoli bui, in tutti i buchi, penetra in me. Ah! i miei piedi cominciano a raffreddarsi, vieni a scaldarmi, entra nel mio corpo, sotto la mia pelle, nei miei occhi. Riaccendi la loro fiamma vacillante e fa’ ch’io veda, veda, veda. Sole, sole, mi rimpiangerai? Caro sole, buon sole, difendimi. Isterilisci e distruggi il mondo intero se occorre un piccolo sacrificio. Che tutti periscano, purché io viva eternamente, anche solo, in un deserto senza frontiere. Mi metterò d’accordo con la solitudine. Custodirò il ricordo degli altri e li rimpiangerò sinceramente. Io posso vivere nell’immensità trasparente del vuoto. E meglio rimpiangere che essere rimpianti. D’altronde non lo si è mai. Luce del giorno, aiuto!

Che io esista, magari col mal di denti, per secoli e secoli. Ahimè, ciò che deve finire è già finito. No, non si piange abbastanza attorno a me, non mi si piange abbastanza. Non c’è abbastanza angoscia. Non impedite a nessuno di piangere, di urlare, d’aver pietà del re, del giovane re, del povero piccolo re, del vecchio re. Io mi commuovo quando penso che esse mi rimpiangeranno, che non mi vedranno piú, che saranno abbandonate, che saranno sole. Son sempre io a pensare agli altri, a tutti. Entrate in me, voi, siate me, entrate nella mia pelle. Muoio, capite, voglio dire che muoio, ma non riesco a dirlo, faccio soltanto della letteratura. Sono tutti degli estranei. E io credevo che formassero la mia famiglia. Ho paura, sprofondo, affondo, non so più niente, non sono mai esistito. Muoio.

O tutti voi, legioni e legioni, che siete morti prima di me, aiutatemi. Ditemi come avete fatto a morire, ad accettare. Insegnatemelo. Che il vostro esempio mi conforti, ed io possa appoggiarmi a voi come a grucce, a braccia fraterne. Aiutatemi a varcare la soglia che voi avete varcato. Tornate per un istante in questo mondo, venite in mio soccorso. Aiutatemi, voi, che avete avuto paura e che non avete voluto. Come sono andate le cose? Chi vi ha sostenuto? Chi vi ha trascinato, chi vi ha spinto? Avete avuto paura sino alla fine? E voi, che eravate forti e coraggiosi, che avete acconsentito a morire con indifferenza e serenità, insegnatemi l’indifferenza, insegnatemi la serenità, insegnatemi la rassegnazione.

Il re muore

Il re muore” (Le Roi se meurt, 1962) è una delle opere più emblematiche di Eugène Ionesco, esponente di punta del teatro dell’assurdo. Un testo che usa una situazione paradossale – un re che scopre di dover morire entro pochi minuti – per costruire un viaggio teatrale che è insieme una meditazione sul potere, il tempo e la morte.

Il re, Bérenger I, è un sovrano assoluto, ma si trova improvvisamente davanti a una realtà inaccettabile: la propria morte è imminente. Non in senso generico, ma con un tempo preciso. Gli resta un’ora e mezza di vita. Il regno sta crollando – terremoti, muri che si sgretolano, guerre ai confini, il sole che si spegne – tutto rispecchia il progressivo cedimento del corpo e della mente del protagonista. La drammaturgia è divisa in due atti, ma lo sviluppo scenico segue una progressione molto simile a quella delle fasi del lutto: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. Quello che vediamo non è l’azione esterna, ma lo smontaggio graduale dell’identità del re.

Il re è seduto sul trono, malandato, ma ancora convinto del proprio ruolo divino. Due regine lo accompagnano: Marie, la giovane e passionale, che vuole proteggerlo dal dolore, tenerlo ancorato alla vita. Marguerite, la prima moglie, lucida e implacabile, che cerca di prepararlo alla fine. Fin da subito Marguerite gli comunica la verità: morirà entro la durata della rappresentazione. Il medico, che è anche astrologo e boia, conferma il verdetto. Il re, ovviamente, rifiuta di crederci. Dice: “Il re non può morire”. È la fase della negazione. Ma tutto intorno a lui, nella scenografia e nei personaggi, lo smentisce. Il palazzo cade a pezzi, i servi se ne vanno, il popolo si dissolve.

Bérenger comincia a vacillare. Cerca di opporsi con ogni mezzo: ordina, supplica, si arrabbia, piange, cerca appigli nella giovane Marie, ma lei stessa si sfalda, si allontana, si fa muta. La figura centrale ora diventa Marguerite, che prende in mano la regia del trapasso. Lo accompagna verso l’inevitabile, come una guida. Il dialogo tra loro due diventa sempre più rarefatto, astratto, quasi liturgico. L’ultimo segmento del testo è un rito di spoliazione: il re abbandona i simboli del potere, la voce si spegne, la luce cala, e alla fine il palcoscenico si svuota. Non c'è alcuna azione eroica, nessun trionfo morale. Solo il riconoscimento di ciò che siamo: mortali.

Analisi Monologo

"O sole, o sole mio, aiutami tu..." Il monologo si apre con una invocazione cosmica, quasi mitologica. Bérenger non parla a Dio, ma al Sole: qualcosa di visibile, tangibile, reale. Il Sole diventa simbolo della vita biologica, della presenza, dell’energia che scalda e illumina. È un invito alla luce, ma anche alla negazione del buio che sta per travolgerlo. Quando dice: "penetra in me [...] entra nel mio corpo, sotto la mia pelle" sta chiedendo non una semplice consolazione, ma una rifondazione dell’essere. Vuole che il Sole gli restituisca corporeità, calore, presenza. Ma il suo corpo inizia già a raffreddarsi. Il conto alla rovescia è cominciato.

"Che tutti periscano, purché io viva eternamente" Questa è la parte più disturbante e, forse, più autentica. Bérenger è pronto a sacrificare l’intero mondo pur di sopravvivere. Non c'è nobiltà nella sua supplica, ma un’umanità crudele, disperata, sfacciata. Questa è la parte in cui l’autore abbandona ogni idealizzazione della figura del sovrano. Il re si rivela per quello che è: un uomo che non vuole morire, disposto a tutto per conservare sé stesso. Ma anche in questa forma estrema di egoismo, c’è una verità che ci riguarda. Il desiderio di vivere "nell’immensità trasparente del vuoto", anche da solo, anche nel deserto, è una metafora della paura dell’annientamento. Non è la solitudine il terrore. È il non esserci più.

"Ciò che deve finire è già finito" Qui c’è un passaggio importante. Il re comincia ad accettare che la fine non è in arrivo: è già avvenuta. Il tempo non è più dalla sua parte. Il paradosso di Ionesco è questo: il protagonista è ancora in scena, ancora in vita, ma ha già perso tutto. E poi arriva una delle frasi più potenti dell’intero testo: "Muoio, capite, voglio dire che muoio, ma non riesco a dirlo, faccio soltanto della letteratura." Questa è un’autocritica feroce. Bérenger capisce che anche nel momento in cui dovrebbe dire la verità assoluta, ricade in una forma. Nella retorica, nella messinscena, in quella costruzione che gli permette di non affrontare la morte in faccia. Fa “letteratura” perché non può fare altro. Perché la parola è l’ultima difesa contro il nulla. "Aiutatemi, voi, che avete avuto paura..." Negli ultimi versi, il monologo cambia direzione. Non c'è più rabbia, né retorica, né invocazione di potenze superiori. C’è la richiesta di una guida. Una guida che non è più divina, ma umana. Si rivolge a coloro che lo hanno preceduto, ai morti. Vuole sapere come si fa. Come si affronta quella soglia. E chiede di essere istruito alla rassegnazione, come se la serenità fosse una tecnica da imparare. Vuole le grucce, gli appoggi, l’esempio. "Insegnatemi l’indifferenza, insegnatemi la serenità, insegnatemi la rassegnazione." Non è una preghiera, non è un grido. È un ultimo, tenerissimo sforzo di apprendimento. Il re è ormai uno scolaro, fragile, che cerca negli altri la forza che non ha. Ed è questo gesto, alla fine, che lo avvicina davvero all’umano.

Conclusione

In questo monologo, Eugène Ionesco concentra l’intero arco della paura della morte. Si parte dal rifiuto e si arriva alla supplica, si passa attraverso il delirio di onnipotenza, la confessione di solitudine, il desiderio di memoria, e infine la domanda più vera: come si fa a morire?.

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