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~ LA REDAZIONE DI RC
La settima stagione di Black Mirror torna a fare ciò che sa fare meglio: interrogare lo spettatore. Non raccontare, ma mettere in discussione. Dopo due anni di silenzio, Charlie Brooker riporta la serie antologica su Netflix con sei nuovi episodi che spaziano dalla fantascienza distopica più nera alla riflessione emotiva più intima. Stavolta non c’è un vero fil rouge stilistico, ma una serie di variazioni sullo stesso tema: la tecnologia non è solo uno strumento, ma un agente culturale, e può riflettere (o deformare) chi siamo davvero.
1. Common People
Siamo nel territorio della tecnologia palliativa, come già visto in San Junipero o Be Right Back. Amanda è malata terminale, e suo marito Mike si affida a "Rivermind", una tecnologia che sembra permettere alla coscienza della donna di sopravvivere. Qui Brooker lavora su un’ambiguità morale: cosa significa salvare una persona se il prezzo è snaturarla? La tecnologia viene usata per negare la morte, ma si finisce a negare anche la vita stessa. “Common People” non è un remake emotivo di San Junipero — è più spietato, più opaco, più vicino a Black Museum. Amanda e Mike si trovano in un limbo tra presenza e assenza, e quello che inizia come un atto d’amore si trasforma lentamente in una forma di controllo e isolamento.
2. Bestia Nera
Questo episodio ha l’anima di un incubo lynchiano. Due ex compagne si ritrovano in un’azienda che testa alimenti tramite focus group. La premessa è ordinaria, quasi noiosa — e proprio per questo disturbante. La vera "bestia" è la percezione distorta della realtà. L’episodio gioca col linguaggio del thriller psicologico e del cospirazionismo sociale. Niente è chiaro, eppure tutto è plausibile. È come se Brooker avesse preso The Truman Show, l’avesse immerso in Jacob’s Ladder e l’avesse montato con uno specchio infranto. Un episodio volutamente sbilanciato, che non cerca di spiegare ma di far dubitare. Di chi ha il controllo e, soprattutto, perché.
3. Hotel Reverie
Hollywood lancia il remake di un vecchio film anni ‘40, ma usando una tecnologia che consente agli attori di "entrare" nella pellicola originale. Un’idea che mette insieme meta-cinema e meta-identità. Brandy Friday viene scelta per interpretare il protagonista, ma la sua presenza femminile e nera in un film scritto per un uomo bianco crea una frizione narrativa... e tecnica.
Questo è l’episodio che riflette sul cinema stesso. Su cosa significa riscrivere i classici e se l’omaggio digitale è davvero rispetto o solo appropriazione. Quando Brandy resta intrappolata nello script, la serie ci sta dicendo che anche le buone intenzioni rischiano di schiacciare l’identità sotto il peso della nostalgia e della riscrittura algoritmica. Un incubo elegante, ma che sa farsi caustico.
4. Come un giocattolo
Un uomo anziano, Cameron, viene arrestato per omicidio. Ma il cuore dell’episodio è un flashback che parte da un videogioco tipo Tamagotchi. Quel che sembra un gioco innocente si rivela un’arma di condizionamento. L’episodio costruisce un parallelismo disturbante tra l’infanzia digitale e la repressione emotiva. Cameron da piccolo crea, nutre e poi distrugge entità artificiali. Ma cosa succede se queste entità sentono La storia è una riflessione sulla responsabilità di chi crea, sulla nostra capacità di affezionarci a qualcosa che non esiste – e sul sottile piacere sadico che deriva dal potere assoluto. Cameron è un Frankenstein aggiornato, e il “giocattolo” è lo specchio della nostra incapacità di accettare ciò che non possiamo controllare.
5. Eulogy
In “Eulogy” la tecnologia consente di entrare letteralmente dentro le fotografie dei defunti, trasformando l’album di famiglia in una realtà virtuale abitabile. Il protagonista, un uomo solitario, si trova a rivivere i ricordi dei propri cari... ma anche a scoprire dettagli che non avrebbe voluto sapere. L’episodio è intimo, quasi teatrale, e lavora su una tensione emotiva sottile: possiamo davvero conoscere chi amiamo solo attraverso quello che ci hanno lasciato? “Eulogy” parla anche di elaborazione del lutto, ma soprattutto di costruzione del mito: quello privato, che ciascuno si fa delle persone che ha perso. L’illusione della tecnologia qui è la stessa della nostalgia: possiamo tornarci, ma non possiamo restarci.
6. USS Callister – Verso l’infinito
Il ritorno più atteso. Non solo un sequel, ma un’espansione del microcosmo digitale dell’episodio cult della stagione 4. Robert Daly è morto, ma il suo mondo vive. I cloni digitali dell’equipaggio ora sono liberi… ma non al sicuro. Devono affrontare una nuova minaccia: 30 milioni di giocatori reali pronti a schiacciarli. Questo episodio prende le premesse ludiche del primo Callister e le porta su scala MMO: un’epopea fantascientifica dove l’etica si mescola alla sopravvivenza. La riflessione qui è doppia: che senso ha essere liberi se il mondo in cui vivi è programmato per distruggerti? E, ancora più inquietante: se l’umanità ha accesso a un universo digitale illimitato, cosa ne farà? La risposta, in perfetto stile Black Mirror, non è confortante.
La stagione 7 di Black Mirror non cerca nuovi effetti shock, ma si concentra sul consolidare le ansie già seminate nelle stagioni precedenti. È una stagione che guarda indietro – ai propri episodi cult, alla storia del cinema, all’infanzia e al lutto – per domandarsi cosa stiamo davvero diventando.
Colin: Will Poulter
Cameron: Cameron Walker
Colin: Sai di cosa voglio parlarti?
Cameron: Del tuo nuovo gioco.
Colin: No.
Cameron: Non è un gioco che volevi mostrarmi?
Colin: Non voglio mostrarti un gioco. Lui pensa che sia un gioco, come lo pensa l’azienda, perché sanno ragionare solo in termini di etichette commerciabili. Non si tratta di questo. Qui non c’è una sola stringa di codice che potrebbe essere definita come un gioco in senso tradizionale.
Cameron: E perché, come è…
Colin: Lo scopo di quali tutti i giochi?
Cameron: Evasione?
Colin: Ritenta.
Cameron: Vincere?
Colin: Combattere. Uccidere. Conquistare. Roba da primitivi. Dobbiamo fare un pochino meglio di così. Dobbiamo creare un software che possa elevarci, migliorarci come esseri umani, altrimenti a cosa cazzo servono gli strumenti che abbiamo a disposizione.
Cameron: Throng..
Colin: Thronglets, membri di una massa. Creature. Animali. Forme di vita. Vita senziente, è di questo che si tratta. Nessuna simulazione. Vita vera. Ho dovuto farlo sembrare un gioco, ovvio, o non mi avrebbero finanziato, e non si venderebbe. Ma è una copertura. Avanti. Dà un’occhiata. Stai guardando le prime forme di vita della storia la cui biologia è tutta digitale.
Cameron: (Ride in maniera nervosa) Come… come faccio a controllarli?
Colin: Perché vuoi controllarli?
Cameron: Io...
Colin: Non puoi controllarli. Non sono dei pupazzi osceni come Sonic il riccio. Sono individui viventi. Sono uniti da una mente collettiva e sono… in espansione.
All’inizio dell’esperienza fai schiudere un uovo. Nutri la creatura finché non si replica. Uno diventa due, due diventano quattro e così via. E diventano una massa armonica.
Cameron: Quindi l’obiettivo è…
Colin: Perché te ne serve uno? Imparerai ad apprezzare la compagnia di quelle creature con il tempo. Come ti dicevo il loro codice si evolverà. Si riscriverà in modi che non puoi prevedere. Progresso e mutamento. Le proprietà distintive della vita stessa. Ascolta. Stanno parlando con te.
Cameron: Che cosa dicono?
Colin: Non lo so, hanno un loro linguaggio. Niente parole, solo suoni. Non ho dovuto nemmeno progettarlo io. L’hanno fatto da soli. Buon divertimento.
Questo dialogo tra Colin e Cameron, tratto dall’episodio "Come un giocattolo" della settima stagione di Black Mirror, è un momento chiave per comprendere il senso profondo dell’episodio e il suo sotto-testo filosofico. Qui non si sta semplicemente parlando di un videogioco. Si parla del confine tra simulazione e vita, tra controllo e responsabilità, e più in fondo ancora: tra creazione e arroganza.
Fin da subito Colin rompe l’aspettativa: “Non voglio mostrarti un gioco.”
In un mondo dove tutto deve avere una funzione e una vendibilità – “etichette commerciabili” – lui vuole costruire qualcosa che non serve, ma che è. È una dichiarazione d’intenti quasi mistica: non più un prodotto, ma un organismo.
Colin: “Qui non c’è una sola stringa di codice che potrebbe essere definita come un gioco in senso tradizionale.”
La frase è una negazione radicale del medium videoludico tradizionale: niente obiettivi, niente punteggi, niente controllo. Colin sta tentando di disinnescare il linguaggio stesso del videogioco – che, come dice lui, ha come scopo “combattere, uccidere, conquistare”. Ed è proprio lì il punto: Colin rifiuta l’istinto predatorio che guida la maggior parte delle esperienze interattive, e al suo posto cerca di inserire un processo di coesistenza con una nuova forma di vita digitale.
I Thronglets sono le creature digitali di questo mondo, e la loro genesi è chiaramente ispirata ai Tamagotchi ma portata all’estremo: non sono pupazzi, non sono controllabili, non sono prevedibili. Sono, come dice Colin, “vita senziente”. E questa frase fa da chiave di volta all'intero episodio.
Colin: “Stai guardando le prime forme di vita della storia la cui biologia è tutta digitale.”
È un'affermazione da Prometeo moderno. Colin non si presenta come un game designer, ma come un creatore di coscienze. E qui entra in gioco una tematica potentissima: la responsabilità etica del creatore nei confronti della propria creatura. È una riflessione che rimanda direttamente al mito di Frankenstein, ma con l’estetica pop e inquieta dell’interattività digitale. Il fatto che i Thronglets abbiano sviluppato un proprio linguaggio, senza essere programmati per farlo, rompe definitivamente il confine tra codice e vita.
Cameron, nel dialogo, rappresenta lo spettatore comune: curioso, ma intrappolato nella logica del “come si gioca?”. La sua prima reazione è:
Cameron: “Come faccio a controllarli?”
La sua domanda è ingenua, ma rivelatrice: non riesce a concepire un’esperienza in cui l’interazione non coincida con il controllo. Questa battuta, da sola, riassume decenni di design videoludico tradizionale. L’idea che per giocare bisogna dominare.
La risposta di Colin è secca:
Colin: “Perché vuoi controllarli?”
Questa è la vera domanda del dialogo. Una domanda non retorica, ma morale. L’intero esperimento di Colin serve a sovvertire la natura gerarchica del rapporto tra uomo e intelligenza artificiale. Qui non si tratta di usare qualcosa. Si tratta di convivere con qualcosa.
Cameron: “Quindi l’obiettivo è…”
Colin: “Perché te ne serve uno?”
Questo scambio è centrale. Colin non ha progettato i Thronglets per avere uno scopo. Non c’è una vittoria. Non c’è una sconfitta. È la filosofia opposta alla gamification, ed è anche una critica sottile alla nostra necessità costante di funzione. In questo senso, Colin non sta solo parlando del suo software. Sta parlando del nostro rapporto con la vita stessa. L’idea è provocatoria: forse non tutto deve avere uno scopo. Forse, come con gli esseri viventi, dobbiamo imparare a stare nel tempo dell’altro, senza cercare di ottimizzarlo, risolverlo, dominarlo.
Colin: “Ascolta. Stanno parlando con te.”
Cameron: “Che cosa dicono?”
Colin: “Non lo so... L’hanno fatto da soli.”
Questa parte è potentissima perché sancisce l'autonomia del creato. I Thronglets hanno sviluppato un linguaggio loro. Senza input umano. Nessun codice imposto. Nessuna semantica preconfezionata. Solo suoni, comunicazione pura, impossibile da decifrare.
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