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~ LA REDAZIONE DI RC
La settima stagione di Black Mirror torna dopo due anni e continua a fare quello che sa fare meglio: puntare un riflettore deformante su desideri, ossessioni e contraddizioni del nostro rapporto con la tecnologia. Charlie Brooker gioca di nuovo con i generi – dal thriller psicologico alla satira sci-fi – ma lo fa con una scrittura più riflessiva, meno sensazionalistica. E ogni episodio, anche quando tocca territori già battuti dalla serie, lo fa con una variazione che merita di essere osservata da vicino.
1. Common People
Amanda è malata terminale. Mike, suo marito, si affida a “Rivermind”, una tecnologia in grado di trasferire coscienze umane in un sistema artificiale. L’idea è prolungare la vita – o quantomeno renderla vivibile oltre i confini del corpo. Ma c’è un paradosso: chi prende la decisione? Chi resta o chi sta per andarsene? Qui Black Mirror riprende il filone della coscienza digitale (San Junipero, Black Museum) ma ci aggiunge una tensione relazionale più cruda. Il cuore dell’episodio non è tanto la tecnologia quanto il peso emotivo di una scelta irreversibile, e soprattutto il prezzo che paga chi ama. Amanda, infatti, non sembra aver voce in capitolo. E allora il dubbio si insinua: è amore o è egoismo mascherato da salvataggio?
2. Bestia Nera
Due ex compagne di scuola si ritrovano in un focus group per testare prodotti alimentari. La situazione si complica quando l'esperienza si trasforma in una spirale psicotica. Ma Bestia Nera è meno interessato al prodotto in sé, e più all’ambiente: un microcosmo di controllo, dove nulla è come sembra e ogni azione è monitorata. L’episodio si appoggia a un’estetica da thriller paranoico anni ’70 e sfrutta le dinamiche del potere “invisibile”: chi osserva? Chi decide cosa è reale? Non c’è tecnologia invadente, solo un sistema talmente opaco che anche la realtà viene distorta. Un episodio scomodo, che mette a nudo le strutture autoritarie sotto l’apparente neutralità del lavoro d’ufficio.
3. Hotel Reverie
Il più metacinematografico degli episodi, e forse quello più pungente verso l’industria dell’intrattenimento. Brandy Friday è una star che viene inserita in un remake “immersivo” di un classico hollywoodiano, Hotel Reverie. La novità? È lei, in carne e ossa, a interagire dentro la pellicola originale. Il tono vira subito verso l’horror. Intrappolata nel mondo del film, Brandy deve seguire fedelmente la sceneggiatura per non dissolversi nel nulla. È un episodio che parla della nostalgia come trappola, e del rischio di riscrivere i classici solo per renderli “più rappresentativi” senza comprenderne davvero lo spirito. Il risultato è una riflessione sul feticismo dei remake e sulla tensione tra forma e identità narrativa. Se cambi i protagonisti ma non cambi le regole del gioco, che senso ha?
Cameron è un anziano arrestato per omicidio. La sua storia parte negli anni ‘90, quando sviluppò un videogioco molto simile a un Tamagotchi. Ma qui i “mostriciattoli” digitali sono più che pixel: diventano un test su scala globale, un esperimento sociale mascherato da intrattenimento. La forza di questo episodio sta nel dualismo tra innocenza e crudeltà. Cameron non è solo un inventore, è un osservatore disilluso dell’umanità, convinto che la violenza emerga sempre quando non ci sono conseguenze. Il videogioco diventa lo specchio della parte peggiore dell’uomo: quella che distrugge ciò che non capisce. Più che una condanna del gaming, è una critica alla disumanizzazione implicita nei nostri rapporti con le “intelligenze finte”, anche quando le trattiamo come cose.
5. Eulogy
Un funerale digitale. Un uomo può rivivere le foto del passato, camminare nei ricordi dei defunti. All’inizio sembra un’idea poetica: un’ultima occasione per stare con chi non c’è più. Ma poi qualcosa si incrina. Eulogy esplora la memoria come campo di battaglia: cosa ricordiamo, cosa dimentichiamo, e quanto siano vere le nostre versioni del passato. Il problema è che entrando nei ricordi altrui, si possono scoprire verità scomode. Il defunto diventa meno ideale, più umano. E allora cosa si commemora davvero? C’è una malinconia diffusa che accompagna tutto l’episodio, una riflessione delicata sull'elaborazione del lutto e sul pericolo di idealizzare chi se n’è andato solo per non soffrire.
6. USS Callister – Verso l’infinito
Torna l’equipaggio della USS Callister, in una sorta di sequel dichiarato dell’episodio della quarta stagione. Robert Daly è morto, ma il suo mondo virtuale è ancora vivo. Nanette Cole guida i cloni sopravvissuti in una nuova missione: affrontare 30 milioni di giocatori umani. Qui Black Mirror si sposta apertamente nel territorio della space opera. Ma sotto l’avventura digitale, c’è un’analisi su cosa significhi avere coscienza in un ambiente artificiale. La sopravvivenza non è solo fisica, ma identitaria. E la battaglia vera è tra il libero arbitrio e l’illusione di esserlo. È un episodio più movimentato, quasi epico per gli standard della serie. Ma la posta in gioco è la stessa: se il mondo è una simulazione, la lotta per essere vivi è ancora più disperata.
Kimmy: Awkwafina
Judith: Helen Scott
Kimmy: Dunque, il vostro studio, Keyworth Pictures, ha un catalogo veramente straordinario. Thriller noir, film romantici di guerra, commedie brillanti, e un repertorio unico di opere d’epoca.
Judith: Con d’epoca intende vecchie.
Kimmy: Intendo vintage. Avete una grande reputazione.
Judith: Cinquant’anni fa si… Lo so che sta cercando di leccarmi il culo, ma siamo seri. I set sono vuoti. Siamo sommersi di debiti. Sono stata a Cannes per vendere il catalogo ad alcune piattaforme e hanno detto… “CNF”.
Kimmy: CNF. Cioè concorso nazionale…
Judith: No. Ce ne fottiamo. Il marchio Keyworth non è quello di un tempo. Stiamo morendo, e lo sanno tutti.
Kimmy: Ma, con i vostri contenuti di prestigio…
Judith: La prego non la chiami contenuti. Mi viene il vomito.
Kimmy: Va bene, ok. Io mi scuso. Film di prestigio. Sogni, classici, come… hotel reverie.
Judith: “Sarò tuo ora e per sempre” Il preferito di mio padre, e il mio ma. Ma provi a spiegarlo al pubblico, le risponderebbero…
Kimmy: “CNF.”
Judith: Che senso ha guardare un vecchio film con Ralph Redwell quando possono guardarne uno nuovo con… Ryan Gosling, o… Ryan…
Kimmy: Reynolds.
Judith: Si, sono del tutto fuori dalla mia portata.
Kimmy: Bene. E se le dicessi che la mia azienda ha un sistema economico per prendere un classico dimenticato come Hotel Reverie e sostituire il protagonista con una star attuale di Hollywood?
Judith: Ma non possiamo…
Kimmy: Aspetti, aspetti…. Si che potrete permettervelo. Perché vi serviranno solo 96 minuti del loro tempo.
Judith: Volete usare uno di quei programmi di deel fake per mettere Ryan al posto di Ralph.
Kimmy: Quello che proponiamo non è fake. E’ reale.
Judith: Mhmm… è riuscita a incuriosirmi.
Kimmy: Quale Ryan chiamiamo per primo?
Questo dialogo è tratto da "Hotel Reverie", terzo episodio della settima stagione di Black Mirror, ed è uno dei momenti chiave per comprendere la premessa concettuale e tematica dell’episodio: la collisione tra passato e presente nell’industria cinematografica, e la mercificazione dell’eredità culturale attraverso la tecnologia.
“Con d’epoca intende vecchie.”
Judith corregge subito Kimmy con una battuta secca che ha il tono di chi ha perso fiducia nel linguaggio pubblicitario e nei tentativi di edulcorare la realtà. Il suo "vintage" è sinonimo di obsolescenza commerciale. È una donna che non ha più voglia di fingere ottimismo. Qui si stabilisce subito un contrasto generazionale e culturale. Judith è cresciuta con l’idea del film come opera d’arte; Kimmy arriva con una mentalità da startup, dove tutto può essere reso nuovo, rivendibile, scalabile.
“Hanno detto… CNF.” / “Ce ne fottiamo.”
L'acronimo inventato, CNF, è una trovata che suona autentica proprio perché grottesca. È un modo diretto per dire che il passato non ha più valore di mercato. Nessuno si preoccupa di preservare o rilanciare, conta solo ciò che è immediatamente monetizzabile. Judith non sta solo parlando di un fallimento aziendale, ma di una crisi d'identità dell'intero cinema classico. Keyworth Pictures rappresenta lo studio caduto in disgrazia, simbolo del vecchio sistema, travolto dalla logica degli algoritmi.
“La prego non la chiami contenuti. Mi viene il vomito.”
Questa battuta è probabilmente la più significativa del dialogo. “Contenuti” è una parola neutra, usata oggi per tutto – da un video TikTok a un documentario – ma per chi proviene dal cinema “vero”, è un insulto. È la linea che separa l’arte dall’intrattenimento usa-e-getta. Judith non odia la tecnologia: odia l’idea che il cinema possa essere ridotto a flusso da impacchettare e redistribuire. La sua reazione è istintiva, fisica: “mi viene il vomito”.
“E se le dicessi che la mia azienda ha un sistema economico per prendere un classico dimenticato come Hotel Reverie…”
Qui Kimmy rivela il vero scopo dell’incontro: non salvare il cinema classico, ma rivenderlo. Propone una forma aggiornata di recasting digitale – un mix tra deepfake e attorialità sintetica – in cui il volto originale del protagonista viene sostituito da quello di una star attuale. È il punto in cui l’episodio lancia la sua provocazione più forte: non solo possiamo riscrivere la storia, ma possiamo “ricastare” la memoria stessa. I classici possono essere aggiornati, corretti, modernizzati, venduti di nuovo – come se fossero software da patchare.
“Volete usare uno di quei programmi di deep fake…” / “Quello che proponiamo non è fake. È reale.”
Judith sa benissimo cosa stanno per fare: rebranding digitale del passato. Kimmy ribatte con una frase che ha il sapore dello slogan aziendale: “non è fake, è reale”. Una contraddizione che è il cuore dell’episodio. È qui che si inserisce uno dei temi chiave dell’intera serie: cos’è reale quando l’immagine può essere manipolata in tempo reale? E se tutto può essere riscritto, c’è ancora qualcosa di autentico da difendere? “Quale Ryan chiamiamo per primo?” Chiusura perfetta: sarcastica, pungente, e spietatamente attuale. I nomi “Ryan Gosling” e “Ryan Reynolds” non sono scelti a caso. Rappresentano il volto rassicurante, sexy, vendibile dell’industria di oggi. In quel momento, Judith non può far altro che arrendersi al fatto che i suoi vecchi sogni cinematografici sono diventati delle IP da reimpacchettare.
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