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~ LA REDAZIONE DI RC
"Fortunata" (2017), diretto da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini, è un film che affonda le mani nella periferia romana più cruda e si concentra su una figura femminile che, nonostante il nome, sembra tutto fuorché fortunata. Ma il punto non è il destino, semmai la tenacia con cui lo si sfida, anche quando si sa che si rischia di perdere. Fortunata è una donna sulla trentina che vive al margine. È madre single, lavora in nero come parrucchiera a domicilio in un quartiere popolare di Roma e cerca, in mezzo a mille contraddizioni, di costruire qualcosa per sé e per la figlia Barbara. Il suo sogno è semplice ma enorme: aprire un salone tutto suo. A ostacolarla non sono solo i soldi che mancano, ma soprattutto un contesto sociale e familiare che soffoca ogni tentativo di autonomia.
L’ex marito, Franco, è una presenza tossica, aggressiva, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Non ha accettato la separazione e continua a intromettersi nella vita di Fortunata e della figlia con una violenza che non ha bisogno di essere spettacolare per risultare devastante. Non è un villain da melodramma: è il simbolo di un maschilismo quotidiano, banale, logorante. L’unico a starle vicino è Chicano, un amico d’infanzia, ex tossico, borderline e affettuoso. La loro relazione è strana, viscerale, a tratti disturbata. Chicano vive con una madre, Lotte, affetta da Alzheimer, e rappresenta un’altra forma di marginalità: quella che non si redime, ma che si trascina. È un personaggio che, come Fortunata, ha bisogno d’amore e non sa dove trovarlo.
Il punto di rottura arriva con l’incontro con Patrizio, psicoterapeuta infantile incaricato di seguire Barbara dai servizi sociali. Lui è colto, empatico, distante dal mondo di Fortunata ma incuriosito dalla sua energia. Tra i due nasce un’attrazione immediata che sembra promettere qualcosa di diverso. Per Fortunata, Patrizio rappresenta un’opportunità: un uomo che la vede, la ascolta, la considera. Ma soprattutto, le dà l’illusione di poter ricominciare. E qui il film cambia tono. La relazione con Patrizio non diventa salvezza, ma specchio: mette Fortunata di fronte alla propria fragilità, ai suoi limiti, alla sua disperazione. Lei si illude che lui possa amarla, salvarla, ma in fondo lui è solo un’altra persona che non sa gestire ciò che Fortunata è: troppo, troppo intensa, troppo incasinata, troppo fuori dagli schemi.
Fortunata: Jasmine Trinca
Patrizio: Stefano Accorsi
Patrizio: Questi non ragionano più così, lo capisci?
Fortunata: Ma questi chi, che cazzo sono, ma che ne sanno loro.
Patrizio: Ma tu non puoi vivere così, tu sei sempre in guerra con tutto. Ci sono le istituzioni, le regole. magari non ci piacciono, ma questa società è tenuta insieme da regole morali.
Fortunata: Ma quali regole? Le vostre!
Patrizio: Ma le vostre di chi? Di chi stai parlando?
Fortunata: Che scrivete le ricette verbali e poi non scrivete un cazzo.
Patrizio: Non me ne frega? A me non me ne frega? A me non me frega? Io sono qua in questo cazzo di matrimonio, con te.
Fortunata: E Perché non gli hai fatto la ricetta allora? Perché?
Patrizio: Ma cosa stai dicendo, è? cosa stai dicendo, che la responsabilità è mia. Ma ti rndi conto quanto è grave quello che stai dicendo? Io sono iscritto a un albo professionale. Dov’è l’uscita?
Fortunata: Qua siamo all’aperto, però, è. Non ci stanno le scrivanie, i pupazzetti, la sabbia e tutte ste cazzate qua.
Patrizio: Non è una cazzata, questa! Ha ammazzato la madre!
Fortunata: Ma che ne sai te che non gli ha mai dato un bacio in vita sua!
Patrizio: Tu hai una mentalità criminale. Tu mi fai paura. Io sono spaventato, da te. Io faccio un passo indietro. Dove cazzo è l’uscita.
Fortunata: O, ma te le regole le hai rispettate quando mi sei zompato addosso?
Patrizio: Io non ti sono zompato addosso. Io non vado in giro a zompare addosso alla gente. Non è mia abitudine.
Fortunata: Io mi sono giocata tutto. Tutto quello che avevo.
Patrizio: Non mi toccare.
Fortunata: Ho perso tutto. E tu che hai perso?
Patrizio: Ha ammazzato la madre, lo vuoi capire?
Fortunata: No.
Patrizio: Non ha sbagliato una permanente, cretina.
Fortunata: Non l’ha ammazzata. non l’ha ammazzata! Non l’ha ammazzata! Non l’ho ammazzato! No! L’ho lasciato morire. Ho affogato papà. Diceva… “Annamo ar mare. Annamo a giocà”. S’annava a drogà ar mare. S’annava a droga ar mare. E me nascondeva la roba sotto i vestiti. Avevo ‘na paura. C’avevo una paura… una paura… L’ho visto cade, a faccia sotto. Tutte ‘e vorte l’ho visto cade. Gli è entrata tutta l’acqua nel naso, nella bocca… L’ho lasciato affogà. C’avevo paura. Allora… Ho ricominciato a giocà. E manco piangevo. Manco piangevo. E che c’avevo colpa? C’ha colpa, una ragazzina de otto anni? Per te c’ha colpa?
Questo dialogo è il punto di rottura emotiva e morale del film Fortunata. È una vera e propria esplosione drammatica tra Fortunata e Patrizio, e funziona come una resa dei conti: non tra due personaggi, ma tra due mondi. Da una parte c’è chi vive la vita da dentro, a mani nude, senza filtri. Dall’altra chi prova a spiegarla, a incasellarla, a regolarla.
La scena si apre su un confronto già acceso. Patrizio, come psicologo, cerca di riportare Fortunata a un discorso razionale: parla di regole morali, di istituzioni, di ordine sociale. Ma Fortunata non vive nel mondo delle regole: vive in quello delle urgenze, delle contraddizioni, del dolore che non si può verbalizzare secondo i codici professionali.
Patrizio: “Questa società è tenuta insieme da regole morali.”
Fortunata: “Ma quali regole? Le vostre!”
Con questa battuta Fortunata smaschera la vera distanza: non è solo sociale o culturale, è esistenziale. Per lei, il linguaggio della psicologia, delle terapie, dei “pupazzetti” usati per comunicare con i bambini è una truffa. Perché non arriva dove dovrebbe arrivare: nel fango della realtà. Questa non è una lite d’amore. È la fine brutale di un’illusione. Fortunata credeva che Patrizio potesse essere diverso, ma qui lo vede per ciò che è: uno che, per quanto si dichiari coinvolto, alla fine torna a rifugiarsi dietro la propria professione.
Fortunata: “Perché non gli hai fatto la ricetta allora?”
Patrizio: “Io sono iscritto a un albo professionale.”
Lui si ritira nella difesa formale. Lei invece rilancia mettendo a nudo il punto più doloroso: la sua colpa non detta, il trauma che ha seppellito da bambina.
“L’ho lasciato affogà. C’avevo paura. Allora… Ho ricominciato a giocà. E manco piangevo…”
Qui il film si spacca in due. Fortunata torna indietro al momento fondante della sua ferita. Il ricordo del padre tossicodipendente, che la usava per nascondere la droga, la paura quotidiana, l’impotenza di una bambina che avrebbe solo voluto giocare e invece si ritrova ad assistere a un padre che annega. E lo lascia morire. Ma lo dice così, “L’ho lasciato morire”, come se stesse ancora cercando di capire se è stato vero.
“E che c’avevo colpa? C’ha colpa, una ragazzina de otto anni? Per te c’ha colpa?”
La domanda che non è solo per Patrizio, ma per chiunque la giudichi, per ogni adulto che non è stato lì con lei, che ha preteso da lei una responsabilità impossibile. Fortunata porta un trauma che non ha mai elaborato. E proprio per questo, non può accettare le regole morali di chi non ha mai vissuto nulla di simile.
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