King Kong (1933) – Il mostro, lo schermo, il mito

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~ LA REDAZIONE DI RC

Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.

Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.

Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.

Il film di oggi è...

King Kong (1933)

C’è un momento in King Kong (1933) in cui il gorilla gigante, portato via dalla sua isola e incatenato su un palcoscenico a New York, si libera e fissa il pubblico. Lo sguardo di Kong non è quello di una bestia, ma quello di un essere che ha compreso il tradimento. In quel momento, il film di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack smette di essere solo un’avventura spettacolare e diventa qualcosa di più profondo: una tragedia moderna, raccontata attraverso il linguaggio ancora giovane del cinema fantastico.

A distanza di quasi un secolo, King Kong è ancora uno dei film più influenti della storia del cinema. Non solo per la sua straordinaria innovazione tecnica, ma perché è riuscito a creare una figura mitica, capace di attraversare generi, epoche, tecnologie e culture. Un mostro che fa paura e intenerisce. Una creatura che distrugge e ama. Un simbolo che, come accade solo ai veri miti, dice molto di chi lo guarda.

La trama: bellezza e bestia, cinema e sfruttamento

Il film si apre con il regista Carl Denham, avventuriero in cerca di emozioni forti da trasformare in spettacolo. Ha in mente di girare un film mai visto prima, e per questo affitta una nave e parte per un’isola misteriosa, la leggendaria Skull Island. Con lui c’è un’attrice improvvisata, Ann Darrow (Fay Wray), giovane e affascinante, alla disperata ricerca di lavoro.

Una volta giunti sull’isola, il gruppo si imbatte in una tribù indigena e in un mondo preistorico dominato da creature gigantesche. Ma la vera leggenda è Kong, un gorilla colossale venerato come una divinità. Ann viene offerta in sacrificio al mostro, che però non la uccide, ma la protegge, dando inizio a una relazione fatta di paura, fascinazione, tenerezza.

Denham riesce a catturare Kong e lo porta a New York per esibirlo come attrazione. Ma la natura selvaggia e sofferente di Kong non può essere contenuta: si libera, semina il panico in città e, nel climax più celebre del film, scala l’Empire State Building, tenendo Ann tra le mani. Assalito dagli aerei, Kong viene abbattuto e precipita.

Il mostro come metafora

Kong non è solo un gorilla gigante. È un’icona ambigua, polisemica, che può essere letta in mille modi:
– È l’Altro, il selvaggio, il diverso che l’Occidente tenta di dominare.
– È la natura, potente e irriducibile, che non può essere incatenata senza conseguenze.
– È il desiderio represso, la parte istintiva dell’uomo che emerge quando la razionalità non basta.
– È una figura tragica, come Frankenstein, come il Minotauro, come King Lear.

Il film stesso sembra non voler risolvere del tutto questa ambiguità. Kong è mostruoso, sì, ma è anche l’unico personaggio a provare emozioni autentiche. L’unico a non recitare un ruolo sociale. E quando muore, lo spettatore non prova solo sollievo, ma un senso di perdita, quasi di lutto.

Effetti speciali: la nascita di un linguaggio

Dal punto di vista tecnico, King Kong è stato una rivoluzione assoluta. La creatura di Kong venne realizzata con la tecnica dello stop motion da Willis O’Brien, maestro dell’animazione a passo uno. Il modello di Kong – alto circa 45 cm – venne mosso fotogramma per fotogramma, inserito in scenografie miniaturizzate e poi integrato con attori veri tramite compositing, retroproiezioni e altre tecniche pionieristiche.

Oggi, abituati al fotorealismo della CGI, queste animazioni possono apparire “datate”, ma il loro effetto resta potentissimo. Perché ogni gesto di Kong è carico di una fisicità artigianale, di una presenza reale. Non è un effetto digitale: è una scultura animata, che vive nello spazio, con le sue imperfezioni e la sua materia.
Ed è proprio questa tangibilità fisica che rende Kong così vivo, così tragico.

La colonna sonora di Max Steiner, una delle prime scritte appositamente per un film parlato, aggiunge una dimensione emotiva e narrativa nuova: accompagna le azioni, sottolinea i momenti chiave, costruisce un ritmo.

Ann Darrow e la costruzione dello sguardo

Fay Wray, con i suoi urli strazianti e la sua figura esile, entra nella storia del cinema come una delle prime “scream queen”, ma il suo ruolo è più complesso. Ann non è solo la fanciulla da salvare: è il perno intorno a cui ruota tutto il film.

Kong la desidera, ma non la violenta. La protegge, la osserva, la tiene con cura. Il suo interesse non è meramente predatorio: è una forma di attrazione silenziosa, quasi infantile. In questo senso, il film mette in scena una riflessione sullo sguardo maschile, sul rapporto tra potere, controllo e desiderio. Kong guarda Ann. Ma anche il pubblico guarda Ann. E forse, King Kong è anche un film sul voyeurismo, sull’ossessione dell’immagine femminile come oggetto di fascinazione e paura.

Il colonialismo e l’occidentalizzazione del mostro

Uno degli aspetti più controversi del film – oggi oggetto di numerose analisi critiche – è la rappresentazione coloniale. L’isola è “non civilizzata”, abitata da indigeni stereotipati, e il viaggio di Denham assume il tono di una spedizione imperialista, dove l’obiettivo non è conoscere, ma catturare, portare in patria, dominare.

Kong, in questo senso, può essere letto come metafora della schiavitù, o della paura razziale: una creatura potente, “altra”, che viene esibita come spettacolo, ma che si ribella, rompe le catene e “attacca la civiltà”. Le letture razziali non erano intenzionali da parte degli autori, ma emergono inevitabilmente dal contesto storico e visivo.

Il film, quindi, è anche un documento culturale del suo tempo: uno specchio delle ansie dell’America degli anni ’30, che guardava alla modernità con speranza, ma anche con paura del “diverso”.

Impatto e eredità

King Kong fu un enorme successo al momento dell’uscita, sia commerciale che culturale. È uno dei primi film a diventare un fenomeno di massa, con un protagonista non umano. Ha influenzato decine di registi, da Ray Harryhausen a Steven Spielberg, da Peter Jackson (che ne ha diretto un remake nel 2005) a Guillermo del Toro.

Il personaggio di Kong è diventato un’icona pop, protagonista di sequel, remake, crossover (tra cui Godzilla vs Kong), parodie e citazioni in ogni forma mediatica. Ma nessuna versione ha mai eguagliato la forza del film originale, con la sua semplicità narrativa e la sua potenza simbolica.

È stato selezionato dal National Film Registry per la conservazione, considerato "culturalmente, storicamente e esteticamente significativo". E ancora oggi, molte sequenze – la scalata dell’Empire State Building, il primo incontro tra Kong e Ann, la scena del treno – sono incastonate nella memoria visiva collettiva.

Il sogno infranto del cinema delle origini

King Kong è un film che ha fatto la storia del cinema sotto ogni aspetto: tecnico, simbolico, narrativo. È un film che mette insieme il senso di meraviglia infantile e la tragedia greca, l’avventura e la malinconia, il progresso e la colpa.

Nonostante i limiti culturali del suo tempo, resta un’opera straordinaria proprio perché oscilla continuamente tra spettacolo e riflessione, tra incanto e dolore. Kong non è solo un mostro: è la creatura che il cinema ha saputo umanizzare meglio di qualsiasi altra.

E alla fine, quando cade dall’Empire State Building, sappiamo che non stiamo assistendo alla morte di una minaccia, ma alla fine di un’illusione. Quella per cui la bellezza può convivere con la bestia, e il cinema può dominare i propri mostri senza pagarne il prezzo.

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