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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Arturo, interpretato da Stefano Accorsi ne La dea fortuna, arriva in un momento delicato e centrale del film. Non è una scena madre, ma una confessione a cuore aperto, fatta quasi più a sé stesso che a un altro personaggio. Arturo parla come chi ha trattenuto troppe cose per troppo tempo, e ora le lascia uscire in un flusso disordinato ma sincero. È un momento di smascheramento, dove il personaggio si confronta con la sua frustrazione, le sue scelte e il senso di smarrimento che accompagna molte relazioni di lunga durata.
MINUTAGGIO: 1:23:03-1:25:32
RUOLO: Arturo
ATTORE: Stefano Accorsi
DOVE: Netflix
Io avrei potuto essere un professore dell'Università, sai? Sarei potuto andare ad insegnare. Ma ho rinunciato a tutto. Sisisi, ho scelto io, certo, lo so, la scelta… Tanto tempo fa. Ma è durato… un attimo, è? E poi che cazzo è successo? Quando è che è cambiato tutto. Nessuno ti avvisa. No, no, no, nessuno che ti dice: “O, attenzione, pericolo, è…“ Nonono, via il sesso, via la passione… Il romanticismo, tutto. Ci può anche stare, guarda. Noi avevamo lo stesso un progetto, però, capito? E perché adesso io non mi ricordo neanche che cazzo di progetto era? Che cosa dobbiamo fare ancora insieme, solo aspettare di invecchiare? Sai che a volte lo guardo, mi sembra qualcuno che non conosco? Però mi fa anche tanta tenerezza, sai? Quando fa le sue stronzate. Ne fa tante! Perché io lo conosco davvero. Io so chi è, capito? Ma non so se basta. No. Mi sa che non basta. Non invecchieremo più insieme.

"La dea fortuna" è un film del 2019 diretto da Ferzan Özpetek, che segna un ritorno ai suoi temi più cari: la famiglia scelta, i legami sentimentali, la fragilità e la forza dei rapporti umani. Ma questa volta, lo fa con un tono meno visionario rispetto a opere come Le fate ignoranti o La finestra di fronte, concentrandosi su una narrazione più concreta e asciutta, pur mantenendo quella sensibilità emotiva che da sempre lo caratterizza. La storia ruota attorno ad Arturo e Alessandro, una coppia omosessuale che vive a Roma. Stanno insieme da più di quindici anni, ma la relazione è logorata dalla routine, da tradimenti reciproci e da un'intimità che si è spenta. Non si odiano, ma non si amano più con quella forza di un tempo. Il film non si apre con un dramma evidente, ma con l’eco silenziosa di qualcosa che si sta sgretolando da tempo.
La loro vita prende una piega inaspettata quando Annamaria, una cara amica di entrambi (interpretata da Jasmine Trinca), si presenta a casa loro con i suoi due figli, Martina e Sandro. Deve sottoporsi a dei controlli medici e chiede a Arturo e Alessandro di occuparsi dei bambini per qualche giorno. Il problema è che quel "qualche giorno" diventa qualcosa di molto più lungo e complicato. Annamaria è gravemente malata e il suo futuro, così come quello dei figli, è incerto. Qui il film cambia passo. L’arrivo dei due bambini rompe l’equilibrio instabile della coppia. Arturo e Alessandro si ritrovano a fare i conti con la responsabilità, il senso del dovere, e con un tipo di amore che non è quello passionale o romantico, ma quello genitoriale. Ed è proprio attraverso il rapporto con Sandro e Martina che emergono le crepe della loro relazione: la generosità di Alessandro, più istintivo e affettuoso, si scontra con il cinismo e la frustrazione di Arturo, intellettuale disilluso, stanco del compromesso quotidiano.
Ma allo stesso tempo, i bambini diventano anche uno specchio e un'occasione. Forse per ricominciare. Forse per dirsi quello che non si erano mai detti. Forse per capire che l’amore, anche quando finisce in una forma, può trasformarsi in altro.
Il cuore del film è tutto qui: l’idea che una famiglia possa nascere non dal sangue o dalla legge, ma dalla cura reciproca. Özpetek ci mostra una famiglia non convenzionale, ma profondamente reale: due uomini che si ritrovano a essere padri, e forse di nuovo compagni, proprio nel momento in cui la vita li mette davanti a una responsabilità più grande di loro.
"Io avrei potuto essere un professore dell’università, sai?" Si parte con un rimpianto, con quella frase tipica da bilancio di metà vita: "avrei potuto". Arturo ci sta dicendo che aveva davanti a sé un futuro possibile, un’identità professionale definita e stimata, ma ha scelto un'altra strada. Il tono non è vittimistico: riconosce di aver scelto lui. Ma c’è amarezza. Perché quella scelta, fatta magari per amore, è stata rapida, forse impulsiva, e ora si porta dietro le conseguenze. "Ma è durato… un attimo, è? E poi che cazzo è successo?" Quell’amore, quel progetto condiviso che un tempo lo aveva motivato a rinunciare a tutto, è svanito nel tempo. Non c’è stato un momento preciso, un punto di rottura evidente. E questo lo rende ancora più difficile da accettare. Le relazioni non esplodono: si consumano. E nessuno ti avvisa.
"Via il sesso, via la passione… Il romanticismo, tutto." Arturo elenca, come in un inventario in negativo, tutto ciò che è andato perso. Lo fa senza giri di parole. E questa parte è potente perché scava nel corpo della relazione: non è un discorso sull’amore astratto, è una constatazione fisica e quotidiana. Il desiderio che si spegne, il corpo che si allontana, il sentimento che resta forse, ma in una forma sfilacciata, distante. "Avevamo lo stesso un progetto, però, capito?" L’amore non bastava, ma c’era un progetto. La parola “progetto” è importante: è il cemento delle relazioni di lunga durata. Un piano comune, una direzione. Ma ora Arturo si accorge di non ricordare nemmeno quale fosse. E qui c’è una delle verità più amare del film: anche le cose fatte con convinzione, se non vengono coltivate, possono svanire nella nebbia del tempo. "Sai che a volte lo guardo, mi sembra qualcuno che non conosco? Però mi fa anche tanta tenerezza, sai?" Ed è questo il passaggio che spezza: l’ambivalenza tra distanza e affetto. Arturo non riconosce più Alessandro, ma prova ancora un sentimento profondo, nonostante tutto. Una forma d’amore che non è più passione, né complicità, ma che rimane — tenera, fragile, ma forse insufficiente.
"Io so chi è, capito? Ma non so se basta." Arturo dice una cosa gigantesca: conoscere qualcuno, nella sua interezza, non è detto che sia abbastanza per voler restare. A volte l’intimità non salva. E qui il film è lucido, maturo, e per niente consolatorio. "Non invecchieremo più insieme." Il finale non lascia spazio a dubbi. Arturo ha capito, forse con dolore ma con onestà, che la storia è finita. Non ci saranno più progetti, né futuri condivisi. Ma la forza del monologo sta nel fatto che non è un'accusa, né un addio rabbioso. È una resa dolceamara, un'accettazione.

Questo monologo è una delle scene più intense del film. Stefano Accorsi riesce a renderlo con una naturalezza che sembra quasi improvvisata, come se stesse davvero pensando in quel momento. La scrittura di Özpetek (assieme a Gianni Romoli) qui tocca un punto molto intimo e riconoscibile per chiunque abbia vissuto una relazione di lunga durata.

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