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~ LA REDAZIONE DI RC
“La vita è bella” (1997), scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni, è uno di quei film che sembrano divisi in due. Non tanto nel tono – anche se lì il contrasto è evidente – quanto proprio nella struttura narrativa. Il film si apre come una commedia sentimentale e si chiude in pieno dentro una tragedia storica, il tutto raccontato dal punto di vista di un padre che trasforma l’orrore in un gioco pur di proteggere suo figlio Siamo ad Arezzo, alla fine degli anni '30. Guido Orefice è un uomo pieno di vita, ebreo, con un’intelligenza brillante, un’immaginazione debordante e una capacità disarmante di rovesciare la realtà con l’ironia. Arriva in città per lavorare nell’hotel dello zio e si innamora di Dora, una maestra elementare già promessa a un ufficiale fascista. La prima parte del film è una commedia romantica quasi chapliniana. Guido corteggia Dora con trovate teatrali, situazioni improbabili, giochi di parole. È un uomo che “vince” la realtà con la fantasia. Quando Dora decide di salire sul carro dei cavalli per fuggire con lui sotto la pioggia, il film mette un punto fermo: ha scelto di cambiare vita, ha scelto Guido, ha scelto il mondo visto con i suoi occhi.
La svolta arriva improvvisa. Siamo nel 1944. Guido, Dora e il loro figlio Giosuè vengono deportati in un campo di concentramento nazista. Nonostante non sia ebrea, Dora insiste per salire sul treno con la sua famiglia. Ed è qui che il film cambia tono, ma non cambia la sua anima.
Guido, per proteggere il figlio dall’orrore del campo, gli fa credere che tutto quello che stanno vivendo sia un grande gioco a premi. Le regole sono rigide: non si deve piangere, non ci si deve lamentare, non bisogna farsi vedere dalle guardie. Se Giosuè riesce a comportarsi bene, vincerà un carro armato vero. E per tutto il film, Guido mantiene questa finzione con una lucidità e una forza quasi surreali. Traduce finti regolamenti, improvvisa scenette, si inventa storie per tenere in piedi l’unica cosa che può ancora proteggere: l’innocenza del figlio. La madre, nel frattempo, è in una sezione separata del campo. Guido non la vede mai, ma riesce a inviarle piccoli segnali, anche solo attraverso la musica.
Nel momento più tragico, quando ormai la guerra sta finendo e il campo viene evacuato, Guido viene ucciso. Ma fino all’ultimo istante continua a far credere al figlio che è tutto parte del gioco. Cammina verso la morte facendo finta di sfilare in modo buffo, strappando a Giosuè un ultimo sorriso.

Soldato: “Ascoltatemi tutti. lo dico soltanto una volta!“
Guido: Comincia il gioco, chi c’è c’è, chi non c’è non c’è!
Soldato: “Siete stati portati in questo campo per un motivo…“
Guido: Si vince a 1.000 punti. Il primo classificato vince un carro armato vero.
Soldato: “…per lavorare!”
Guido: Beato lui!
Soldato: “Ogni sabotaggio è punito con la morte. Le esecuzioni avvengono sul quadrangolare con degli spari alle spalle.” (si indica la schiena)
Guido: Ogni giorno vi daremo la classifica generale da quell’altoparlante là. All’ultimo classificato verrà attaccato un cartello con su scritto “asino”, qui sulla schiena.
Soldato: “Avete l’onore di lavorare per la nostra grande madrepatria e di partecipare alla costruzione del grande Impero Tedesco.”
Guido: Noi facciamo la parte di quelli cattivi cattivi che urlano, chi ha paura perde punti.
Soldato: “Non dovete scordare mai tre regole generali: Uno, non provate a scappare; due, seguite ogni comando senza fare domande; tre, chiunque protesta viene impiccato. È chiaro?“
Guido: In tre casi si perdono tutti i punti. Li perdono: Uno, quelli che si mettono a piangere; due, quelli che vogliono vedere la mamma; tre, quelli che hanno fame e vogliono la merendina, scordatevela!
Soldato: “Dovreste essere contenti di lavorare qui. Non succederà niente a quelli che rispettano le regole.“
Guido: È molto facile perdere punti per la fame. Io stesso ieri ho perso 40 punti perché volevo a tutti i costi un panino con la marmellata.
Soldato: “La compiacenza è tutto!“
Guido: D’albicocche.
Soldato (un altro soldato gli dice qualcosa all’orecchio): “Altra cosa…“
Guido: Lui di fragole.
Soldato: “Quando sentite questo fischio dovete venire rapidamente sul quadrangolare…“
Guido: Ah, non chiedete i lecca-lecca perché non ve li danno: ce li mangiamo tutti noi.
Soldato: “…Ogni mattina…“
Guido: Io ieri ne ho mangiati 20.
Soldato: “…Farete una fila, due persone di fianco…“
Guido: …Un mal di pancia…
Soldato: “…Ogni mattina…“
Guido: …Però erano boni…
Soldato: “…Per l’appello.“
Guido: …Lascia fare.
Soldato: “Altra cosa: lì dietro lavorerete. Capirete facilmente le dimensioni del campo.“
Guido: Scusate se vado di fretta, ma oggi sto giocando a nascondino, ora vado, sennò mi fanno tana.

Siamo appena arrivati nel campo di concentramento. I prigionieri vengono radunati per ascoltare le regole imposte dai soldati tedeschi. Giosuè è presente, non capisce il tedesco, e Guido coglie l'occasione: "traduce" a modo suo. La sua versione è una totale invenzione, messa in scena per proteggere il figlio dal trauma di una realtà disumana. E lo fa attraverso un linguaggio che imita la struttura del gioco. Una regola per volta, come fosse una partita.
Il soldato parla con tono autoritario, impersonale, minaccioso. Ogni frase è una condanna, una restrizione, un'intimidazione: “ogni sabotaggio è punito con la morte”, “chi protesta viene impiccato”.
Guido, invece, trasforma tutto in un racconto per bambini. Non nega l'autorità, la ridicolizza. Non rifiuta la regola, la riformula. È una sovversione pacifica e geniale: quella del narratore che rifiuta il linguaggio del potere.
Guido inventa regole che sembrano plausibili agli occhi di un bambino:
Punti, classifiche, penalità per chi piange o ha fame, premi.
Ogni elemento del campo viene reinterpretato attraverso questa logica ludica: le minacce diventano penalizzazioni, la fame un imprevisto da gestire, la violenza un dettaglio comico (i “lecca-lecca” rubati dai soldati).
Giosuè diventa spettatore inconsapevole di una performance. E noi spettatori vediamo due film sovrapposti: quello tragico che conosciamo e quello comico che Guido recita per suo figlio. Questa dualità è il cuore del film. Guido usa il corpo per sdrammatizzare. Imita i gesti dei soldati, commenta ironicamente i movimenti, enfatizza il gioco mimando dolori di pancia e nascondendosi come in una partita a nascondino. La comicità non è solo verbale: è teatrale, fisica, quasi clownesca.
Questo richiama direttamente la tradizione del mimo e del cinema muto (Chaplin su tutti), dove il corpo è strumento di resistenza, di espressione, e di ribellione.
In questa scena Guido ha due pubblici:
Giosuè, che è il vero destinatario del “gioco”. L’unico che non deve capire la realtà.
Gli altri prigionieri, che lo guardano disorientati, qualcuno con ammirazione, qualcuno con sconcerto.

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