Monologo finale di Maria Capasso: analisi e significato

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Siamo alla fine del viaggio di Maria. È sopravvissuta. Ma non è solo una sopravvissuta. Ha vinto, secondo le regole di un mondo che non concede seconde possibilità a chi resta con le mani pulite. Il marito è morto, Gennaro – l’uomo che l’aveva trascinata nel sistema criminale – è stato ucciso da lei stessa, e Maria ha preso il suo posto nel meccanismo. Ha trasformato il suo ruolo: da pedina a giocatrice. Questo monologo è pronunciato da una donna che ha deciso di scrivere da sola il proprio finale.

Non mi pento di nulla

MINUTAGGIO: 1:32:00-1:33:20

RUOLO:  Maria Capasso

ATTRICE: Luisa Ranieri

DOVE: Netflix


ITALIANO

Ma per fortuna le cose si aggiustarono da se. Angela ebbe un aborto spontaneo, e oggi è sposata con un bel ragazzo, ricco e posato, figlio di un importatore di Baccalà. E io sono diventata felicemente nonna, la nonna più giovane della villa. Per il resto dell'inchiesta sull'assassina di Gennaro non ho saputo più niente. Pace all'anima sua. Il lavoro procede bene, ho aperto un secondo negozio in centro, a via dei Mille. Sono un'Assassina, ma non sono pentita. Se non avessi agito come ho agito saremmo sprofondi nella miseria e nella disperazione. Il mondo è quello che è, ci sono i poveracci, la stragrande maggioranza; e poi ci sono i ricchi, i potenti, che si ingrassano sulla loro miseria, che si mangiano tutta la loro torta alla faccia degli altri. Io sono riuscita a ricavarmi la mia piccola fetta, e guai a chi me la tocca.

Vita segreta di Maria Capasso

"Vita segreta di Maria Capasso", tratto dal romanzo di Roberto Saviano e diretto da Salvatore Piscicelli, è un film che parte da un contesto quotidiano, quasi anonimo, per scivolare lentamente nei meccanismi oscuri del compromesso morale, della sopravvivenza e dell’ambizione. Una storia apparentemente piccola che diventa, scena dopo scena, un racconto sulla trasformazione personale e su quanto il confine tra il bene e il male possa diventare poroso, quando la vita ti spinge all’estremo.

Maria è una donna normale. Vive ai margini, non per scelta, ma per condizione. Lavora part-time come estetista, suo marito fa l’operaio. Il loro bilancio familiare è fragile, ma tengono botta. I figli, la casa, qualche sorriso. Una felicità silenziosa, senza grandi pretese. Fino a quando la malattia del marito rompe il fragile equilibrio: lui si ammala, soffre, muore. E con lui, muore anche la possibilità di una vita “normale”.È qui che comincia la vera trama del film: Maria, privata dell’asse portante della sua esistenza, si ritrova davanti a una scelta. Tornare indietro – nella miseria, nell’impotenza, nel ruolo di madre sola e vulnerabile – o inventarsi un altro modo di stare al mondo. La scelta non è morale, non è romantica, non è ideologica. È pratica. Maria sceglie la seconda strada.

Gennaro è la chiave di svolta. Ricco, affascinante, viscido quanto basta. Maria diventa la sua amante, ma il vero legame tra i due non è sentimentale. È funzionale. Lui le offre una via d’uscita, un canale per guadagnare soldi veri, per uscire dalla palude. Il primo incarico è un trasporto di droga verso la Svizzera: un test, un battesimo. Ed è proprio lì che il film cambia tono. Il piccolo dramma domestico si tinge di noir. Maria entra nel mondo del traffico di stupefacenti, e inizia a prenderci gusto. Non perché sia una "cattiva ragazza", ma perché, per la prima volta, ha il controllo della propria vita. Il denaro entra, la paura si riduce, la dignità si ricostruisce pezzo dopo pezzo – a modo suo.

Quello che rende interessante la traiettoria narrativa è che Maria non si trasforma in una villain da manuale. Non c’è una svolta dichiarata, nessuna risata satanica o sguardo allo specchio con rossetto rosso fuoco. Maria è sempre Maria: madre, donna di strada, calcolatrice, affettuosa, ruvida. Ma la sua bussola morale si sposta. Fa il necessario. E il necessario, nel suo mondo, significa a volte tradire, ingannare, rischiare, vendere.

Analisi Monologo

"Ma per fortuna le cose si aggiustarono da sé. Angela ebbe un aborto spontaneo, e oggi è sposata con un bel ragazzo, ricco e posato, figlio di un importatore di Baccalà." Parla della figlia Angela, e lo fa con una calma sorprendente, come se stesse parlando con un’amica al bar. L’aborto spontaneo è trattato come un incidente di percorso superato, non come un trauma. Quel “per fortuna” iniziale, però, è la chiave. Maria non ha tempo per sentimentalismi. Per lei, la vita è una linea retta: o va avanti o ti schiaccia. E la felicità della figlia è vista come una conferma che il suo sacrificio ha avuto senso. "E io sono diventata felicemente nonna, la nonna più giovane della villa." Qui la parola “felicemente” sembra quasi ironica. Maria è una nonna, sì, ma non ha nulla del cliché della nonna dolce e remissiva. È giovane, vive in una villa – ha scalato la gerarchia sociale, e adesso può permettersi anche i lussi borghesi che una volta erano fuori dalla sua portata. È una frase che sa di rivalsa. Il suo successo è visibile, tangibile, e lei non fa nulla per nasconderlo.

"Per il resto dell'inchiesta sull'assassina di Gennaro non ho saputo più niente. Pace all'anima sua." Il tono è di chi ha già messo tutto alle spalle. L'inchiesta, la morte di Gennaro, non rappresentano più alcun pericolo né rimorso. Quel “pace all’anima sua” è pronunciato con distacco, forse anche con una punta di disprezzo. Gennaro era solo una tappa. Una pedina, come tante. Maria non prova pentimento, perché non riconosce a Gennaro una superiorità morale. Anzi, lo ha eliminato per uscire dalla sua ombra.

"Il lavoro procede bene, ho aperto un secondo negozio in centro, a via dei Mille." Il dettaglio di via dei Mille non è casuale: è una delle strade più eleganti di Napoli. Aprire un negozio lì non è solo un successo economico, è un’affermazione sociale. Maria ha fatto quello che in tanti sognano: si è reinventata, ha “lavato” la sua posizione sociale con l’apparenza del benessere. È riuscita a legittimarsi anche agli occhi di quel mondo borghese che l’avrebbe sempre vista come “una di sotto”. "Sono un'assassina, ma non sono pentita." È qui che il monologo raggiunge il suo picco. Maria pronuncia la parola con freddezza, come se stesse dicendo “sono una madre”, “sono un’imprenditrice”. Non c’è dramma, non c’è pathos. Solo verità. E questa verità è scomoda. Maria non cerca assoluzioni, non ne ha bisogno. Perché, per lei, la colpa non è di chi si sporca le mani, ma di un mondo che costringe a farlo per non affogare.

"Se non avessi agito come ho agito saremmo sprofondati nella miseria e nella disperazione." È la giustificazione definitiva. Il sacrificio del bene per il bene della famiglia. Il monologo gira intorno a questo concetto: il mondo è spietato, e chi non sa combattere, chi non è disposto a superare certi limiti, resta indietro. Maria ha scelto di non restare indietro. "Il mondo è quello che è, ci sono i poveracci, la stragrande maggioranza; e poi ci sono i ricchi, i potenti, che si ingrassano sulla loro miseria, che si mangiano tutta la loro torta alla faccia degli altri.” Maria guarda il mondo per quello che è: un sistema binario dove pochi mangiano e molti guardano. Nessuna illusione, nessun mito del merito. È un mondo di rapporti di forza. E chi riesce a entrare in quel club ristretto lo fa quasi sempre sporcandosi le mani. ”Io sono riuscita a ricavarmi la mia piccola fetta, e guai a chi me la tocca." La frase finale è una dichiarazione di guerra. Maria ha costruito il suo impero personale, piccolo ma inviolabile. E chiunque osi metterlo in discussione verrà affrontato con la stessa determinazione con cui ha affrontato Gennaro. Non c’è spazio per il rimorso, solo per la conservazione di ciò che ha conquistato.

Conclusione

Maria si autodefinisce assassina, ma lo fa senza vergogna, anzi con orgoglio. In un mondo dove i “ricchi si ingrassano sulla miseria”, la sua ascesa diventa una forma di giustizia personale. Non è pentita, perché ha riscritto le regole del gioco a modo suo.

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