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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Nìkola (interpretato da Alessandro Preziosi) durante il funerale del padre in Mio fratello, mia sorella è uno di quei momenti in cui la narrazione lascia spazio a una confessione che ha il sapore di un bilancio, più che di un commiato. Non è una dedica, non è nemmeno un elogio funebre: è un confronto finale tra un figlio e il padre che ha vissuto in una dimensione tutta sua — fatta di formule, concetti astratti e distanze emotive.
MINUTAGGIO: 3:10-5:30
RUOLO: Nick
ATTORE: Alessandro Preziosi
DOVE: Netflix
Il tempo di mio padre è finito. Oggi siamo qui per celebrare questo, giusto? Però.. sapete una cosa, non è così. Perché il tempo non esiste. Il ricordo… più nitido che ho di lui è quando cercava di spiegarmi questa cosa assurda. Il tempo e lo spazio sono concetti che nell’universo non esistono. Ciò che è… è già stato per la percezione diversa del tempo rispetto… a dove si è. Boh. Io sta cosa non l’ho mai capita. E allora lui mi diceva che dietro questo mistero c’era Dio. Chissà se alla fine l’hai scoperto questo mistero, professore. Quello che invece ho scoperto io, e non da oggi… E’ che il tempo e lo spazio nella vita esistono. E quello che fai lascia un segno, professor Costa. A volte mi sono sentito un marziano, su questa terra. E allora, se il tempo non esiste, come dici tu… Io non devo dirti addio. Se lo spazio non esiste… vuol dire che tu non sei qui. Sei… sei stato e sarai qui o… in un altro pianeta, forse. Io invece resto qui. In questo tempo, in questo spazio. E con il tuo segno.
Il film Mio fratello, mia sorella, diretto da Roberto Capucci e scritto insieme a Paola Mammini, parte da una premessa: due fratelli separati da vent’anni costretti a convivere sotto lo stesso tetto per volontà postuma del padre. Ma, in realtà, è proprio in quella forzatura che si apre la possibilità per i personaggi di muoversi, rivelarsi, disgregarsi e forse, in parte, ricomporsi.
La morte del padre Giulio — figura di scienziato, simbolo di razionalità estrema, ma anche assenza emotiva — fa da detonatore. Al funerale si rivedono Tesla e Nìkola, due nomi che messi insieme richiamano Nikola Tesla, scienziato geniale e isolato, ma che separati definiscono due personalità agli antipodi. Tesla è rimasta ancorata alla casa paterna, al ruolo di madre iper-presente e nevrotica, completamente consumata dall’accudimento del figlio Sebastiano, affetto da schizofrenia. Nìkola, invece, ha scelto la fuga, l’adolescenza permanente, una vita libera e disimpegnata.
Il testamento pone i due fratelli davanti a una sfida precisa: coabitare per un anno nella casa di famiglia prima di poterla vendere. Non si tratta solo di una decisione logistica o economica. È un confronto frontale con ciò che hanno lasciato irrisolto per decenni. È il punto zero da cui far partire un racconto che non è tanto sulla riconciliazione, quanto sul riconoscimento reciproco.
Il microcosmo domestico in cui si trovano a vivere è tutto fuorché sereno. Tesla è una madre schiacciata dalla responsabilità, ossessionata dal controllo, incapace di vedere i propri figli come individui separati. Il rapporto con Sebastiano è totalizzante, quasi simbiotico, mentre quello con la figlia Carolina è praticamente nullo. Carolina non la chiama nemmeno “mamma”: non per rabbia, ma per mancanza di identificazione in quel ruolo. È come se la madre non esistesse davvero per lei, se non nella sua forma più stanca e consumata.
Sebastiano è al centro di tutto, e non solo per la sua condizione. La schizofrenia del ragazzo non è usata dal film come elemento melodrammatico, ma come lente attraverso cui guardare il non detto della famiglia. È lui, il "più bravo violoncellista del conservatorio", a dare un ordine emotivo a ciò che è andato in frantumi. La musica diventa per lui e per Emma, la pianista di cui si innamora, una via di fuga e un linguaggio alternativo per affrontare la realtà.
La relazione tra Sebastiano ed Emma funziona perché è l’unica priva di filtri familiari: non ci sono rancori passati, ruoli imposti, silenzi storici. Lì c’è solo ascolto — e non è un caso che sia la musica lo spazio dove questa connessione prende forma. La figura di Giulio aleggia sul film come un pianeta morto che continua però a generare gravità. Professore di fisica, distante, quasi mitologico nella sua razionalità, Giulio ha lasciato una casa ma non un'eredità affettiva. Più che padre, è stato un architetto rigido di ruoli: Tesla come la figlia affidabile, Nikola come quello inaffidabile, Sebastiano come oggetto di cura, Carolina come scarto.
“Il tempo di mio padre è finito. Oggi siamo qui per celebrare questo, giusto?” La prima frase sembra voler mettere un punto. Ma subito Nìkola lo mette in discussione:"Però... sapete una cosa, non è così." C’è già qui una tensione tra ciò che è convenzionalmente accettato, la morte come fine del tempo, e la prospettiva del padre, per cui tempo e spazio non esistono. Un’idea che, da scienziato, aveva cercato di trasmettere al figlio, ma che Nìkola non ha mai davvero capito. O forse ha scelto di non capire.
“Il ricordo più nitido che ho di lui è quando cercava di spiegarmi questa cosa assurda.” In questa frase c’è tutto il paradosso: il ricordo più chiaro che ha del padre non è un gesto d’affetto, ma una lezione scientifica. Questo ci dice molto su Giulio Costa: la sua modalità di essere padre passava attraverso l’intelletto, mai attraverso il corpo o la parola emotiva. “E allora lui mi diceva che dietro questo mistero c’era Dio.” Qui c’è un cambio di tono: dal razionale all’intangibile. Giulio, pur nella sua razionalità estrema, lasciava uno spiraglio a qualcosa di superiore, come se alla fine anche lui, nel suo essere scienziato, cercasse un senso che andasse oltre la teoria. E la domanda che Nìkola si pone — “chissà se alla fine l’hai scoperto questo mistero, professore” — non è sarcastica. È sincera, e l’uso di “professore” invece che “papà” racconta tanto del loro rapporto: formale, distante, mai sbilanciato sul piano affettivo.
Poi arriva la svolta personale: “Quello che invece ho scoperto io, e non da oggi… è che il tempo e lo spazio nella vita esistono.” È qui che Nìkola prende il testimone del discorso, ribaltando l’eredità paterna. Per lui tempo e spazio esistono eccome. E non sono concetti fisici, ma esperienze vissute. Sono le azioni, le assenze, i silenzi che lasciano un’impronta: “E quello che fai lascia un segno.” Questa frase è la più importante del monologo: è il vero epitaffio, non detto sulla tomba del padre ma inciso dentro di lui. “A volte mi sono sentito un marziano, su questa terra.”
Nìkola ha vissuto con una sensazione di estraneità, di disallineamento, come se fosse fuori posto nel sistema costruito dal padre. Il richiamo al “marziano” non è casuale: è la sensazione di chi non ha trovato uno spazio nella narrazione familiare, di chi ha preferito fuggire piuttosto che orbitare intorno a un centro che non lo riconosceva.
E poi l’epilogo: “E allora, se il tempo non esiste, come dici tu… Io non devo dirti addio. Se lo spazio non esiste… vuol dire che tu non sei qui. Sei… sei stato e sarai qui o… in un altro pianeta, forse.” Qui Nìkola si lascia andare a una forma di consolazione: prende in prestito la teoria del padre per colmare il vuoto della sua assenza. Non c’è un addio, perché se il tempo è relativo, tutto coesiste. Ma è solo un attimo. Un tentativo.
Subito dopo torna sulla terra: “Io invece resto qui. In questo tempo, in questo spazio. E con il tuo segno.” Con questa frase finale, Nìkola si riappropria della propria posizione. Accetta la realtà, quella che il padre sembrava voler ignorare. Lui sta nel tempo e nello spazio. Lui rimane. E soprattutto, è cosciente del segno che quel padre ha lasciato: non un’eredità affettuosa, ma una ferita, una traccia profonda, con cui fare i conti.
Questo monologo è il punto più intimo del personaggio di Nìkola. Non è un figlio che chiede scusa, né un figlio che perdona. È un uomo che accetta l’assenza del padre, ma anche l’impronta che quell’assenza ha lasciato nella sua vita. È il momento in cui lo spettatore vede Nìkola per quello che è: non un uomo immaturo, ma uno che ha scelto di rimanere fuori dal sistema solo perché nessuno gli aveva insegnato come entrarci.
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