\"Rashōmon\" (1950) – La verità, lo sguardo, il caos

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~ LA REDAZIONE DI RC

Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.

Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.

Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.

Il film di oggi è...

"Rashōmon" (1950)

Nel 1950, il cinema giapponese si affacciava timidamente sul panorama internazionale, ancora fortemente segnato dalle cicatrici della Seconda guerra mondiale. Ma fu in quell’anno che Akira Kurosawa, con un film ambientato nel Giappone medievale ma dal respiro assolutamente moderno, cambiò le regole del gioco: Rashōmon non solo ottenne il Leone d’Oro a Venezia, ma segnò l’inizio dell’apertura del cinema giapponese verso l’Occidente, rivelando un autore destinato a influenzare registi in ogni parte del mondo.

Più che un semplice dramma storico, Rashōmon è una riflessione radicale sul senso della verità, sull’impossibilità di afferrarla attraverso uno sguardo unico. Kurosawa si serve di un fatto semplice – un crimine nel bosco – per costruire un film che mette in discussione il valore stesso del racconto, la natura soggettiva della memoria e la tensione tra realtà e rappresentazione.

La trama: un delitto e quattro versioni

Ci troviamo nella Kyoto medievale, in un periodo segnato dalla guerra, dalla carestia, dal caos morale. Un boscaiolo (Takashi Shimura), un monaco buddista e un cittadino si rifugiano sotto la Porta di Rashō, una rovina ormai decadente, in cerca di riparo dalla pioggia. Il boscaiolo e il monaco sono turbati da una vicenda che hanno appena vissuto e discutono insieme al terzo uomo del processo cui hanno assistito: il processo per l’omicidio di un samurai e lo stupro di sua moglie.

Il cuore del film è questo: quattro personaggi raccontano la stessa storia, ma in quattro versioni completamente diverse:

Tajōmaru, il bandito (Toshirō Mifune), dice di aver sedotto la donna e poi ucciso il samurai in duello.
La moglie (Machiko Kyō), dice di essere stata violentata e poi di aver supplicato il marito di ucciderla, ma lui la guardava con disprezzo.
Il samurai, evocato tramite un medium, racconta che dopo il fatto la moglie lo disprezzò, e che lui si uccise per la vergogna.
Il boscaiolo, che sostiene di aver visto tutto, offre un'ulteriore versione, in cui il bandito e il samurai combattono in modo goffo, e la donna manipola entrambi.

Ognuno racconta una verità che serve se stesso, rivelando quanto la percezione sia filtrata dal desiderio, dalla colpa, dalla vergogna. Alla fine, resta il dubbio: cos’è davvero successo nel bosco? Chi dice il vero? E importa davvero?

Verità soggettiva e identità frammentata

Rashōmon è spesso citato come il film che ha messo in discussione l’oggettività narrativa nel cinema moderno. La sua forza non sta solo nell’usare il punto di vista soggettivo, ma nel mettere a nudo la natura contraddittoria dell’essere umano, capace di mentire persino a sé stesso.

Kurosawa costruisce il film come un’indagine impossibile: ogni testimonianza è visivamente ricostruita, ma ogni ricostruzione contraddice le altre. I fatti cambiano, gli sguardi cambiano, gli spazi stessi sembrano deformarsi. E così il film non cerca una verità definitiva, ma mostra come la verità sia una costruzione instabile, soggettiva, manipolabile.

In fondo, Rashōmon non parla del Medioevo giapponese: parla della condizione umana universale, dell’impossibilità di essere davvero onesti, persino nei momenti più tragici.

Una struttura narrativa rivoluzionaria

Kurosawa si ispira a due racconti di Ryūnosuke Akutagawa: Rashōmon e Nel bosco (Yabu no naka). Il secondo fornisce l’intreccio del delitto raccontato da più punti di vista, mentre il primo offre l’ambientazione simbolica della porta in rovina, metafora del disfacimento morale.

Il film è costruito come un montaggio di testimonianze, che si avvicendano con fluidità, ma senza fornire gerarchie. Nessuna versione viene confermata come vera. Nessuna viene completamente smentita. Il montaggio incrociato tra realtà e racconto è gestito con una maestria rara, mantenendo costante la tensione, pur nella ripetizione degli eventi.

Questa struttura, oggi diventata quasi un cliché narrativo (si parla spesso di “effetto Rashōmon” per indicare i racconti contraddittori), all’epoca era rivoluzionaria. Kurosawa rompe con la narrazione lineare, con il concetto di causa-effetto, e affida allo spettatore il compito di interpretare, scegliere, o semplicemente accettare il dubbio.

La macchina da presa come soggetto

L’aspetto forse più innovativo del film è il modo in cui Kurosawa usa la macchina da presa. Le inquadrature non sono mai neutre. Ogni soggettiva ha un punto di vista preciso, un’intenzione, un’emozione. Quando il bandito racconta la sua versione, la camera lo segue con energia, con movimenti rapidi, vicini, quasi esaltanti. Quando parla la moglie, tutto è più statico, sospeso, melodrammatico. Quando è il turno del samurai evocato, la messinscena diventa quasi spettrale.

E poi c’è il bosco: luogo centrale e mutevole, ripreso con camera a mano, attraverso i rami, tra le ombre, con tagli di luce drammatici. Il bosco è un labirinto morale, un teatro di menzogne, in cui non esiste un punto fermo.

Il direttore della fotografia Kazuo Miyagawa lavora con contrasti fortissimi di luce e ombra, trasformando il bianco e nero in uno strumento espressivo totale. Le scene sotto la pioggia alla Porta di Rashō sono bagnate di disperazione. Le scene nel bosco, con i raggi del sole che filtrano tra gli alberi, sembrano appartenere a un sogno o a un incubo, a seconda di chi racconta.

Toshirō Mifune e l’animale umano

Il personaggio del bandito Tajōmaru, interpretato da Toshirō Mifune, è uno dei ruoli più famosi del cinema giapponese. Mifune costruisce un uomo selvaggio, impulsivo, animalesco, ma capace anche di momenti di ambiguità e introspezione. È un’interpretazione fisica, irregolare, quasi teatrale, che sfida ogni canone realistico.

Kurosawa gli affida il compito di rappresentare la natura istintiva dell’essere umano, che si agita tra il desiderio e la colpa. Ma, come per gli altri personaggi, la verità di Tajōmaru è solo una possibilità, non un dato di fatto.

Rashōmon come specchio dell’epoca

Anche se ambientato nel passato, il film riflette la crisi morale del Giappone postbellico. Il paese, uscito distrutto dalla guerra, viveva un momento di smarrimento etico e culturale. L’autorità era stata delegittimata, le istituzioni sembravano fallite, la verità si era frantumata. Rashōmon racconta proprio questo: un mondo in cui la verità non salva, in cui la giustizia è un’illusione, in cui l’unica certezza è l’ambiguità umana.

Non a caso, il film si chiude con una nota di tenue speranza: il boscaiolo, che ha mentito per paura, decide di prendersi cura di un neonato abbandonato. È un piccolo gesto di riscatto, una forma minima di umanità possibile anche nel disfacimento morale. Kurosawa non offre risposte, ma suggerisce che, forse, la verità non è importante quanto la responsabilità verso l’altro.

Un impatto globale senza precedenti

Rashōmon fu un fulmine a ciel sereno nel cinema mondiale. In patria, inizialmente, fu accolto con freddezza. Il Giappone era abituato a un cinema più tradizionale, e il film sembrava troppo sperimentale. Ma la vittoria a Venezia e l’Oscar come miglior film straniero (all’epoca premio onorario) cambiarono tutto: Kurosawa divenne ambasciatore del cinema giapponese, e Rashōmon divenne modello e riferimento per una nuova generazione di registi internazionali.

Da Bergman a Coppola, da Altman a Nolan, in molti hanno guardato a Rashōmon come a un film che ha riscoperto il dubbio come valore narrativo. Senza di esso, probabilmente non avremmo avuto Blow-Up, I soliti sospetti, Memento, né molti dei film che oggi chiamiamo “postmoderni”.

Conclusione: un cinema che non cerca verità, ma consapevolezza

Rashōmon non ci dice cos’è successo nel bosco. Ci dice che la verità non è mai pura, e quasi mai semplice. È filtrata, manipolata, narrata. Kurosawa ci mostra che ogni essere umano, davanti alla colpa e al desiderio, costruisce una versione di sé – e la difende come fosse realtà.

Ma ciò che rende il film ancora attuale è il suo messaggio etico: non possiamo sapere tutto, ma possiamo scegliere come comportarci, come rispondere alla menzogna e alla disperazione. Il boscaiolo, alla fine, fa una scelta. E in quella scelta c’è un’idea di umanità che resiste, anche quando tutto crolla.

Per questo, Rashōmon non è solo un grande film. È un film necessario. Uno specchio rotto in cui ci vediamo riflessi, anche quando preferiremmo non guardarci.

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