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~ LA REDAZIONE DI RC
La quarta stagione di The Bear, disponibile dal 26 giugno su Disney+, segna un punto di svolta per la serie, e forse anche un momento di riflessione per chi la segue fin dall'inizio. La stagione passata si era chiusa con il tanto atteso debutto del nuovo ristorante e la prima, incerta recensione del Tribune. Nessun disastro, ma nemmeno un trionfo: i panini da asporto de The Beef vengono elogiati, mentre il servizio in sala e la gestione emotiva del team vengono messi sotto osservazione. Per Carmy (Jeremy Allen White), basta questo per far scattare l’autodistruzione. La sensazione che il tempo non esista più — se non come una ripetizione ossessiva — prende il sopravvento. Una spirale che segna l’intera stagione.
The Bear ha sempre lavorato su tre binari narrativi fondamentali: il trauma familiare, la costruzione identitaria attraverso la cucina e l’ansia da prestazione costante. Questi elementi non vengono mai risolti, ma continuano a tornare — in modo più quieto, più stanco — anche in questa quarta stagione. Le esplosioni isteriche delle prime stagioni lasciano il posto a un senso di logoramento continuo. Carmy si sveglia sul divano mentre alla TV scorrono le immagini di Ricomincio da capo (1993, Harold Ramis). Un easter egg fin troppo esplicito: è il giorno della marmotta, ma in chiave gastro-esistenziale.
Sydney (Ayo Edebiri) si trova sospesa: il fallimento emotivo e operativo del ristorante la porta a considerare nuove strade. Shapiro (Adam Shapiro) le offre un’alternativa concreta, ma è chiaro che la sua lotta non è tra due carriere: è tra due idee di sé. In sogno si vede sorridere mentre tutto crolla e l’acqua la sommerge — una delle immagini più simboliche della stagione. Non riesce a uscire dal caos dei Berzatto perché quel caos ha finito per sostituire un senso di casa.
Richie (Ebon Moss-Bachrach), come sempre, è lo specchio più emotivamente instabile della serie. La figlia Eve è sempre più lontana, assorbita da un nuovo contesto familiare che Richie non può permettersi né comprendere. L’ingresso di Frank (Josh Hartnett), il nuovo compagno di Tiffany, è l’ennesima ferita mal sopportata. Eppure Richie cerca una forma di riscatto: affida il ristorante a un team di problem solver, rinunciando all’idea romantica del controllo in favore della funzionalità. È un piccolo passo avanti, ma non risolve il vuoto.
Ebra, al contrario, è l’unico personaggio in crescita reale. Rimasto nella vecchia sede del Beef, si concentra su ciò che sa fare: panini da asporto. Niente visione artistica, niente stelle, solo solidità e attenzione al cliente. E quando incontra Albert Schnurr (Rob Reiner), non gli viene proposto un impero, ma una cosa molto più concreta: un piccolo franchising. Non è “il grande sogno”, ma forse è la cosa giusta.
Nat (Abby Elliott), divisa tra il ruolo di madre e quello di manager, è una presenza che cerca di tenere tutto insieme. La pressione è altissima: lo zio Jimmy (Oliver Platt) lancia l’allarme. Le uscite superano le entrate, e il tempo stringe. Hanno due mesi. L’obiettivo è chiaro: ottenere una stella Michelin. Un obiettivo che Carmy non sa più nemmeno se vuole davvero. Carmy è completamente fuori fase. Torna a frequentare i gruppi di sostegno per familiari di alcolisti, ma anche lì non trova sollievo. È disconnesso dalla cucina, dalle relazioni, da sé stesso. Quando si presenta a casa di Claire (Molly Gordon), la scena è dolorosa nella sua semplicità: due persone che hanno condiviso qualcosa di profondo, incapaci di parlarne con chiarezza. Non è una riconciliazione e non è una rottura. È il limbo emotivo perfetto per un personaggio che vive ormai senza presente.
Il matrimonio di Tiffany riunisce tutto il gruppo. C’è Donna (Jamie Lee Curtis), sempre instabile e imprevedibile, e persino lo zio Lee (Bob Odenkirk), che abbandona il sarcasmo velenoso delle stagioni passate per mostrare un lato più umano. È una festa sorprendentemente serena, quasi catartica. Richie e Frank si chiariscono per amore della figlia. Claire e Carmy si riavvicinano. Ma ogni riconciliazione è precaria, ogni passo avanti è condizionato dal tempo che manca.
La quarta stagione è forse la più lenta, la più riflessiva e la più spigolosa. Mostra il logoramento interno dei personaggi senza cedere alla spettacolarizzazione. I litigi ci sono ancora, ma non sono più fuoco e fiamme. Sono apatie, silenzi lunghi, dialoghi fatti di “scusa” e “sto cercando di migliorare”. Nessuno cambia davvero, ma tutti cercano disperatamente una direzione. Se il ristorante chiude… ai suoi protagonisti cosa accadrà?
Michael Bertazzo: Jon Bernthal
Carmen Carmy Bertazzo: Jeremy Allen White
Michael: C’è troppo aglio.
Carmy: Lo dici a me che c’è troppo aglio?
Michael: Dimmelo tu Carm.
Carmy: Si, ce n’è troppo.
Michael: Che ti dicevo?
Pausa
Michael: Sai quella cosa… Non è… non è andata in porto. Quindi…
Carmy: Quale cosa?
Michael: Il noleggio auto. Quella. Già…
Carmy: Mi spiace. Ho una domanda, posso?
Michael: O Cristo Santo, Carm.
Carmy: Che c’è?
Michael: Cosa, cosa, cosa? Che c’è, avanti, che volevi dire, era uno stupidaggine, lo fai sempre, sei un fottuto idiota Mike.
Carmy: No, no. Mike, Mike, se ti frega qualcosa.
Michael: Se mi frega di cosa Carm. Di quello che dice la gente? No, non me ne fotte un cazzo.
Carmy: No, se ti fregava del servizio di noleggio auto.
Michael: NO. A me no… non, non fregava niente. Gira il sugo. Lo sento da qua che si sta attaccando.
Carmy: Va bene.
Mentre gira il sugo.
Carmy: Dove hai trovato i soldi?
Michael: Sono due volte che me lo chiedi.
Carmy: E sono due volte che non rispondi.
Michael: Ti servono soldi, Carm?
Carmy: Se volessi aprire un ristorante?
Michael: Ridacchia. Cos’è questa cazzata?
Carmy: Perché?
Michael: Perché un ristorante?
Carmy: Perché no un ristorante.
Michael: Perché ce l’hai già un ristorante.
Carmy: Si, ma questo sarebbe diverso.
Michael: Spiegati meglio.
Carmy: Senti… i nostri ricordi pi belli sono legati a qualche locale, giusto? Come… il gelato da Omar, dopo il Baseball; da Omega, dopo quella strana festa di compleanno con la mamma.
Michael comincia a ridere.
Carmy: Non riuscivamo a smettere di ridere. Senti, tutti quei ricordi sono successi in quei posti perché… i ristoranti sono posti speciali, no?
Michael: Si.
Carmy: Le persone vanno al ristorante per… farsi coccolare. Oppure vanno al ristorante per… per festeggiare, rilassarsi e non dover pensare a niente per un pò. E molti ci vanno per sentirsi meno soli. Si, anche papà.
Michael: In che senso.
Carmy: Non lo so… L’unico ricordo che ho di lui vagamente felice è di quando parlava di quel locale irlandese dove lui..
Michael: Come cazzo fai a ricordartelo? Cristo Santo Carm.
Carmy: Che c’è?
Michael: Ti ricordi quel posto? E come si chiamava, Carm?
Carmy: No, non lo ricordo…
Michael: Era una bettola. Puzzava di fogna, era un cazzo di inferno. Ride
Carmy: Ma a lui piaceva.
Michael: Già. Ti capita spesso di pensare a papà?
Carmy: Lui com’era?
Michael: Ehh… Non lo so, era… Quando è l’ultima volta che ci hai parlato?
Carmy: Non lo so.
Michael: Già. Come immaginavo. Lui era esattamente così. Carmy, lui era fatto così, era un vero stronzo.
Carmy: Ma tutti adorano i ristoranti. Anche gli stronzi.
Michael: Non lo so, cazzo. Io passo ogni singolo giorno della mia vita in un ristorante e ho conosciuto migliaia di persone che li odiano con tutto il cuore.
Carmy: Si, ma il nostro gli piacerebbe.
Michael: Perché dovrebbe?
Carmy: Perché sarebbe il nostro.
Michael: Carmy, senti, solo perché tu sei stato nella fottuta NABA, non vuol dire che questo settore non sia di merda. Non è perché eri l’addetto ai piatti allora…
Carmy: Lo so bene. Questo lo so. E’ difficile cazzo, è difficilissimo.
Michael: Puoi dirlo forte, cazzo.
Carmy: Ed è questo a renderlo speciale. oK? E’ una vita dura, ed è faticosa, brutale, particolare. E… non tutti possono farla, ma io si. Mike. Possiamo farcela. Ok? Ci prenderemo cura delle persone. Sarà un ambiente calmo, con una cucina squisita, metteremo una bella musica… Le persone verranno nei giorni speciali. Vorranno venire qui dopo… una bella giornata. Anzi, vorranno venire ancora di più dopo una giornata di merda. Renderemo felici le persone. Mike.
Michael: Io e te?
Carmy: Si, io e te.
Michael: Tu ci hai… ci hai pensato un bel pò, non è vero?
Carmy: So di cosa parlo.
Michael: Mhm… COme lo chiami?
Carmy: Lo chiamiamo Mikey’s.
Michael: Io… Ho un nome migliore.
Questo dialogo tra Michael Berzatto (Jon Bernthal) e Carmy (Jeremy Allen White) è uno dei flashback più carichi di significato dell’intera serie The Bear. Siamo lontani dalla frenesia della cucina, eppure siamo nel cuore di ciò che l’ha generata: un sogno non ancora distrutto, una relazione fraterna carica di dolori taciuti e promesse mai realizzate, un momento sospeso che ci racconta da dove arriva tutto quello che vediamo nel presente. Il dialogo si svolge in una cucina domestica, con un sugo da girare e due fratelli che parlano come chi ha mille cose da dire, ma nessuna voglia di affrontarle veramente. È un tipo di conversazione tipica di chi si ama profondamente, ma ha troppa storia alle spalle per potersi dire le cose chiaramente. Michael è quello più grande, quello che “ha fallito prima”, che fa battute, che taglia corto. Carmy è quello che vuole parlare, vuole capire, e forse per la prima volta osa condividere un sogno: aprire un ristorante insieme. Quello che segue è un botta e risposta fatto di ricordi, sarcasmo, nervosismo, e una nostalgia che i due riescono a esprimere solo a metà. “C’è troppo aglio.” / “Dimmelo tu, Carm.”
Il dialogo parte da un dettaglio minore, come spesso succede tra fratelli. È un modo per prendere tempo, per non andare subito al punto. Ma in The Bear, anche il troppo aglio diventa simbolico: parlare di cibo è il linguaggio emotivo della famiglia Berzatto, è il modo in cui si dice “sto qui con te” senza ammetterlo. “Se ti frega qualcosa…” / “Se mi frega di cosa, Carm?” Carmy tenta di scavare. Vuole sapere se Michael crede ancora in qualcosa, se ci tiene ancora a un’idea, a un progetto. Michael taglia corto, è nervoso, non vuole ammettere la delusione. Il noleggio auto non è andato a buon fine, un altro fallimento in una lista lunga. Ma il punto non è il noleggio: è la sensazione di essere fuori gioco, ancora una volta.
“Se volessi aprire un ristorante?”
Quando Carmy lo dice, il dialogo cambia marcia. È come se avesse rotto un tabù: per la prima volta non sta parlando di sopravvivere, ma di costruire. Parla di “ricordi belli” legati al cibo, alla famiglia, all’infanzia. Parla di come un ristorante non sia solo un’attività, ma uno spazio dove accadono cose importanti: celebrazioni, conforto, appartenenza.
Cita il padre, e per un momento riesce a vedere in lui un uomo fragile, non solo un assente. La memoria è imprecisa, ma è autentica. E Michael, che fino a quel momento ha evitato ogni discorso serio, si lascia coinvolgere. Ride, si ricorda, accenna a un’emozione. “Tutti adorano i ristoranti. Anche gli stronzi.” Questa battuta ha dentro tutta la poetica di Carmy. Il ristorante, per lui, è redenzione, anche per chi non se la merita. È un luogo dove anche chi ha una vita difficile può, per un attimo, sentirsi curato.
Quando dice “possiamo farcela”, Carmy non sta parlando solo di business. Sta parlando di una vita diversa, possibile, che li tenga vivi e uniti. Sta parlando di creare qualcosa dove prima c’erano solo disfunzioni, traumi e solitudini. “Le persone verranno… dopo una giornata di merda.” Carmy capisce perfettamente il bisogno umano di rifugio. Non vende solo cibo. Vuole costruire un posto dove la vita si possa alleggerire. Ed è questo il punto centrale: il ristorante come atto d’amore, come risposta concreta alla sofferenza.
Michael lo ascolta. Lo deride un po’. Poi lo prende sul serio.
Il dialogo si chiude con una battuta dolceamara: il nome del ristorante. Carmy propone Mikey’s, un omaggio chiaro, un tentativo di riconciliazione. Michael risponde con: “Io ho un nome migliore”, ma non lo sentiremo mai. Perché Michael non ci sarà.
Questa scena funziona come un prologo emotivo all’intera serie. È il seme del ristorante The Bear, ma è anche l’ultimo vero momento tra i due fratelli. Carmy porta dentro questo dialogo ogni giorno della sua vita: nel modo in cui cucina, in cui si isola, in cui crolla.
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