3000 anni di attesa: analisi del monologo iniziale di Alithea Binnie

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo è il monologo di apertura di Alithea Binnie, protagonista di “3000 anni di attesa”. È il prologo della fiaba che il film si prepara a raccontare. Ma è anche una dichiarazione d’intenti su chi è Alithea, su come vede il mondo e soprattutto sul valore che attribuisce alle storie.

La storia di Alithea

MINUTAGGIO:  00:10-2:31
RUOLO: Alihea
ATTRICE
:Tilda Swinton
DOVE: Netflix

INGLESE

My name is Alithea. My story is true. You're more likely to believe me, however, if I tell it as a fairy tale. So, once upon a time, when humans hurtled across the sky on metal wings, when they wore webbed feet and walked on the bottom of the sea, when they held in their hands glass tiles that could coax love songs from the air... there was a woman, adequately happy and alone. Alone by choice. Happy because she was independent, living off the exercise of her scholarly mind. Her business was story. She was a narratologist who sought to find the truths common to all the stories of humankind. To this end, once or twice a year, she ventured to strange lands. To China, the South Seas, and the timeless cities of the Levant... where her kind gathered to tell stories about stories.

ITALIANO

Mi chiamo Alithea. La mia storia è vera. Tuttavia, è più probabile che mi crediate se la racconto come una fiaba. Allora, una volta, quando gli esseri umani sfrecciavano attraverso il cielo su ali di metallo, quando indossavano le pinne, nuotavano sul fondo del mare; quando tenevano in mano oggetti di vetro che potevano attrarre canzoni d’amore dall’etere, c’era una donna, adeguatamente felice e sola. Sola per scelta. Felice perché indipendente. Che si guadagnava da vivere grazie alla sua mente accademica. Il suo interessa era la storia. Era una narratologa, che cercava di trovare le verità comuni a tutte le storie del genere umano. A tal fine, una o due volte l’anno, si avventurava in terre straniere: in Cina, nei mari del Sud, e nelle città senza tempo del levante. Dove i suoi simili si riunivano per raccontare storie, sulle storie. 

3000 anni di attesa

"3000 anni di attesa" (titolo originale: Three Thousand Years of Longing) è un film del 2022 diretto da George Miller, tratto dal racconto breve The Djinn in the Nightingale’s Eye di A.S. Byatt. Miller, regista noto per l’energia visiva di Mad Max: Fury Road, qui prende una strada completamente diversa. Riduce l’azione al minimo e si affida al potere della parola, della narrazione orale, della memoria. È un film che parla di storie — di quelle che ci inventiamo, di quelle che ereditiamo e di quelle che ci tormentano. Alithea Binnie (interpretata da Tilda Swinton) è una narratologa, una studiosa delle storie, che viaggia a Istanbul per una conferenza. È una donna razionale, solitaria, dedita al pensiero logico. Durante una visita al Gran Bazar acquista un'antica bottiglia, che — una volta aperta — libera un Djinn (Idris Elba), una creatura mitologica imprigionata da tremila anni.

Il Djinn le propone il classico patto: tre desideri in cambio della libertà. Ma Alithea, esperta di mitologia e folklore, sa bene come queste storie vanno a finire. È diffidente. Conosce la natura ambigua del desiderio. A quel punto, il film si trasforma in un dialogo intimo tra i due, fatto di racconti e confessioni.

Il Djinn comincia allora a raccontarle la sua storia. E da lì parte una serie di flashback — ambientati in epoche diverse e in luoghi lontani — che raccontano i suoi amori passati, i suoi errori, i momenti che l’hanno portato a rimanere imprigionato per secoli.

La regina di Saba e il re Salomone La prima prigionia del Djinn nasce da un amore non corrisposto. Racconta di come cercò di avvicinarsi alla regina di Saba, amante del re Salomone, e di come fu intrappolato in una bottiglia dallo stesso Salomone. Il tono qui è quello del mito: oro, potere, sensualità, magia. Ma è anche il racconto di un cuore spezzato.

La concubina Gülten e l’erede ottomano Murad La seconda storia ci porta nell’Impero Ottomano, all’interno di un harem. Una giovane donna, Gülten, scopre il Djinn e gli chiede di essere amata da un principe. Il desiderio le viene concesso, ma si ritrova in un mondo dove la passione e la gelosia si pagano con la morte. Anche qui, la magia non salva. Anzi: complica.

Zefir, la scienziata prigioniera del suo tempo Nella terza storia, il Djinn è liberato da una donna brillante, Zefir, che sogna di conoscere il mondo della scienza. Il Djinn cerca di renderla felice, ma non può salvarla dalla società che la opprime. Lei finisce per desiderare l’oblio, e lo rimanda nella bottiglia. È la storia più amara: qui il desiderio è pura frustrazione.

La vera anima del film è il confronto tra due solitudini. Alithea ha scelto la solitudine come forma di difesa, il Djinn l’ha subita per tremila anni. Mentre lui parla attraverso il passato, lei cerca di difendere il presente.

Analisi Monologo

“Mi chiamo Alithea. La mia storia è vera. Tuttavia, è più probabile che mi crediate se la racconto come una fiaba.” Alithea significa “verità” in greco. E già qui il film ci lancia un cortocircuito interessante: la verità raccontata come fiaba.


C’è un paradosso: la verità nuda e cruda non ci convince. Ma se la trasformiamo in racconto — con un tono da fiaba, con metafore, con struttura — allora siamo più propensi ad accettarla. “Allora, una volta, quando gli esseri umani sfrecciavano attraverso il cielo su ali di metallo…”

Qui entriamo nel cuore del linguaggio fiabesco. Non dice “aerei”, dice “ali di metallo”. Non dice “smartphone”, ma “oggetti di vetro che potevano attrarre canzoni d’amore dall’etere.” La realtà tecnologica viene tradotta nel linguaggio del mito. Questo è esattamente il lavoro che Alithea fa come narratologa: decostruire i racconti per cercare le verità che resistono al tempo. ...c’era una donna, adeguatamente felice e sola. Sola per scelta. Felice perché indipendente.”

Alithea si presenta come una donna soddisfatta della propria solitudine. Non è rassegnazione, è decisione. Ma il modo in cui lo dice — quasi a voler convincere sé stessa tanto quanto lo spettatore — apre già una crepa: quella solitudine è davvero così confortevole? Il Djinn metterà in discussione proprio questo aspetto. “...che si guadagnava da vivere grazie alla sua mente accademica [...] Era una narratologa, che cercava di trovare le verità comuni a tutte le storie del genere umano.” Questa parte posiziona Alithea come una figura fuori dal tempo: viaggia nel mondo, ma soprattutto nelle storie. Analizza i miti per trovare i pattern comuni, le costanti umane. “...si avventurava in terre straniere [...] dove i suoi simili si riunivano per raccontare storie, sulle storie.”

C’è qualcosa di meta-narrativo in questa chiusura. Un racconto sulle persone che raccontano racconti. Un po’ come se Miller volesse dire: questo film non è solo una favola esotica con un Djinn. È un’esplorazione di come e perché raccontiamo storie.

Conclusione

Questo monologo funziona come soglia. È l’inizio di un viaggio non verso un altro mondo, ma verso un altro modo di guardare il mondo. Ci racconta che le fiabe, anche in un’epoca di tecnologia avanzata e razionalismo, sono ancora necessarie per dire qualcosa di vero. È un invito a sospendere l’incredulità — ma non per fuggire dalla realtà. Piuttosto per capirla meglio.

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