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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo ad Avechot, un immaginario paesino di montagna delle Alpi italiane, isolato, coperto di nebbia per gran parte dell’anno, e con un’atmosfera cupa che sembra quasi respirare. La storia comincia con un incidente d’auto: l’auto dell’agente Vogel (interpretato da Toni Servillo) si è schiantata. Lui è insanguinato, ma non ferito. Dice di aver avuto un incidente casuale. È confuso, o almeno così sembra. E questa è già la prima scena: inizia come se fosse la fine di qualcosa.
Da qui si torna indietro, e piano piano si ricostruisce la scomparsa di Anna Lou, una ragazza adolescente dai capelli rossi, cresciuta in una famiglia profondamente religiosa. Una scomparsa improvvisa, senza tracce, apparentemente senza movente. Il caso attira immediatamente l’attenzione dei media. Viene chiamato l’ispettore Vogel, un investigatore di quelli da manuale televisivo: elegante, calcolatore, capace di manipolare la stampa e l’opinione pubblica per ottenere quello che vuole. Vogel, più che cercare la verità, costruisce una narrazione. E su quella narrazione imposta le sue mosse.
Vogel individua presto un sospettato: il professor Martini, interpretato da Alessio Boni. Insegna letteratura al liceo, vive una vita apparentemente tranquilla con la moglie e la figlia. È il classico personaggio ambiguo: troppo perfetto, troppo normale, quindi "sospetto". Non ci sono prove concrete, ma a Vogel basta poco per montare un caso mediatico. Le televisioni iniziano a scavare nella vita di Martini, trasformandolo nel “mostro” di turno. E il film mostra come la verità conti poco di fronte a una narrazione efficace. “La ragazza nella nebbia” non è un film investigativo classico. Non cerca tanto il colpevole quanto il meccanismo attraverso cui si crea un colpevole. È un film che ragiona sul potere della comunicazione, su come un’indagine possa diventare spettacolo, e su come i media e la polizia possano diventare complici — volontari o meno — nella costruzione di una verità alternativa.
Vogel: Toni Servillo
Dottor Flores: Jean Reno
Vogel: I suoi pesci si somigliano tutti, sa dottore?
Dottor Flores: Oncorhynchus mykiss, gliel’ho detto. Sono esemplari di trota iridea o arcobaleno.
Vogel: Vuole dire che colleziona solo quelle?
Dottor Flores: E’ strano, lo so.
Vogel: Ma perché lo fa?
Dottor Flores: Potrei dirle che è una specie affascinante e difficile da catturare, ma non sarebbe la verità. Io ho già parlato del mio infarto e vede… su un lago in montagna quando è arrivato l’attacco. Qualcosa aveva appena abboccato all’amo e io stavo tirando su con tutte le mie forze. Scambiai il dolore al braccio sinistro con un crampo. Quando capii caddi all’indietro. Mentre perdevo i sensi ricordo che accanto a me c’era questo enorme pesce che mi fissava. Entrambi stavamo per morire. Curioso, no?
Vogel: E quale sarebbe la morale della storia?
Dottor Flores: Non c’è. Però ogni volta che catturo un’esemplare di trota arcobaleno poi finisce su una di queste pareti.
Vogel: Io ora sono la trota arcobaleno di quella bastarda. Ho fatto male… ho fatto male a fidarmi di quella storpia. Mi ha venduto a Stella Honer per riscattarsi da anni di umiliazioni. Il suo scoop non era la riapparizione di questo improbabile uomo nella nebbia; la sua notizia ero io. Sono diventato il suo trofeo.
Dottor Flores: Non è da lei farsi aggirare in quel modo.
Vogel: Oliver.
Dottor Flores: Chi?
Vogel: Il ragazzino di cui parla Anna Lou nel suo diario. Quello che aveva conosciuto d’estate. In segreto, con una biro, scriveva l’iniziale sul braccio sinistro, quello del cuore. Ho pensato spesso a questa piccola “O”. E per la prima volta nella mia vita ho provato… compassione.
Dottor Flores: Credo che la sua presenza stanotte ad Avechot non sia un caso. L’incidente stradale lo è. Quando è uscito fuori strada lei stava scappando. Non è vero che lei è sotto choc. Non è vero che ha perso al memoria. Invece ricorda ogni cosa. Esatto?
Vogel: Che ne dice se… le rivelassi che so chi è stato. Perché io stanotte ho ucciso il mostro.
Questo dialogo tra Vogel (Toni Servillo) e Dottor Flores (Jean Reno) è uno dei momenti più densi e simbolici de La ragazza nella nebbia. È una conversazione carica di sottotesto, in cui ogni battuta sembra dire una cosa e, allo stesso tempo, suggerirne un'altra. Qui non si parla soltanto di pesci o di giornalismo, ma di identità, manipolazione e colpa.
L'intera scena è costruita su una metafora: la trota arcobaleno come simbolo del trofeo, della cattura, e della vulnerabilità umana al momento della sconfitta. Il Dottor Flores racconta un episodio che sembra marginale — un infarto durante una battuta di pesca — ma che rivela un dettaglio fondamentale: l'identificazione con il pesce, con l'animale che in quel momento stava per morire con lui. È come se la sua ossessione nel collezionare sempre la stessa specie fosse un modo per rivivere quell'istante e, in qualche modo, dominarlo.
“Entrambi stavamo per morire. Curioso, no?” Questo è il punto centrale del monologo di Flores: l'identificazione con la preda. Non è più il pescatore, ma il pescato. E questo ribaltamento di ruoli è il fulcro della scena. Subito dopo, Vogel raccoglie il filo di quella metafora e lo trasforma in confessione: lui è diventato il trofeo di qualcun altro. La giornalista Stella Honer lo ha “pescato”, smascherato, lo ha esposto come una trota appesa al muro. Ed è qui che il dialogo cambia tono: da riflessione simbolica a resa dei conti personale.
“Sono diventato il suo trofeo.” Fino a questo punto del film, Vogel è stato il manipolatore, l’uomo che piega i media e l’opinione pubblica a suo favore. Ma qui, per la prima volta, lo vediamo nudo, vulnerabile, “catturato”. È un momento in cui la sua maschera si incrina. La battuta: “Ho pensato spesso a questa piccola O. E per la prima volta nella mia vita ho provato… compassione.” …segna un passaggio: un investigatore che si era sempre mantenuto distaccato emotivamente dai casi si lascia toccare da un dettaglio, una piccola iniziale scritta sul braccio di una ragazza scomparsa.
È la svolta morale del personaggio, se così possiamo chiamarla. Eppure, anche qui, il film gioca sul filo dell’ambiguità: compassione sì, ma anche menzogna, controllo, vendetta. La battuta finale: “Che ne dice se… le rivelassi che so chi è stato. Perché io stanotte ho ucciso il mostro.” È una rivelazione sibillina, che non chiarisce ma complica. Vogel è stato sempre l’artefice della narrazione, ma ora sembra voler chiudere il cerchio con un’ultima manipolazione. Sta dicendo la verità? O sta costruendo l’ennesimo racconto per salvarsi?
Dottor Flores lo ha già messo alle strette: “Non è vero che ha perso la memoria.” Lui lo sa. E lo spettatore inizia a dubitare di tutto quello che ha visto fino a quel momento.
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