“Memory” di Michel Franco: quando l’amore resiste alla fragilità

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~ MASSIMILIANO AITA

Ieri, per me, è stata una giornata terribile.

Ho rischiato di buttare all’aria il rapporto più importante degli ultimi due anni.

Le mie insicurezze, l’incombente senso di vivere una vita fallimentare hanno devastato la mia testa.

Il down dalla fase maniacale è stato brutale, netto, impattante.

Certo posso dare la colpa alla stanchezza, alla latente gelosia professionale che ho nei confronti di alcuni di voi, alla consapevolezza che sto investendo soldi, tempo e denaro per cosa?

Forse per nulla.

E allora ieri sera guardavo fuori dal balcone (abito al quinto piano) e pensavo.

Pensavo a come sarebbe stato, alle frasi fatte che avrebbero pronunciato amici, vicini, conoscenti.

E sapete cosa è successo?

E’ successo che mi sono allontanato da quel balcone perché col cavolo che gliela do la soddisfazione di ricordarmi come uno che ha combinato poco o nulla dalla vita.

Io voglio tutto: voglio la fama, la ricchezza, il riconoscimento.

E soprattutto voglio l’amore.

Quello che penso sempre di aver trovato e che, in realtà, sempre mi sfugge.

Perché questa lunga intro?

Perché stamattina, appena svegliato, ho visto un film: Memory.

Memory racconta di due fragilità che si incontrano: alcolismo ed Alzheimer.

Memory si interroga su un tema molto dibattuto in questi tempi difficili: possono due fragilità darsi forza a vicenda.

Il film non riesce a fornire una risposta definitiva perché chi, come la protagonista del film, è alcolista sa benissimo che un crollo ti attende dietro l’angolo.

Soprattutto se l’essere alcolista dipende da traumi infantili che ti hanno portato ad

allontanarti dalla tua famiglia.

Perché sapete qual è la cosa più divertente dell’alcolismo?

Che è la dipendenza con minor livello di riprovazione sociale e nello stesso tempo quella che più di ogni altra ti allontana dagli affetti veri.

Perché l’alcolismo non è mai un errore, un tranello in cui cadi.

No, si diventa alcolisti al termine di un processo profondo ed ovviamente errato di

elaborazione della propria sofferenza.

La protagonista di Memory soffre per essere stata violentata dal padre e per il mancato riconoscimento di questa violenza ad opera della madre.

E come può dunque un alcolista vivere un rapporto affettivo equilibrato?

Non può. A meno che non trovi una persona altrettanto disequilibrata.

E chi più di una persona malata di Alzheimer incarna l’idea di disequilibrio.

Il malato di Alzheimer è qualcuno che non ti giudicherà mai perché non rammenta i tuoi errori, non ricorda le tue risposte stizzite o il tuo pianto senza freni.

Almeno questo raccontano i sacri testi medici.

E se la realtà fosse diversa?

Se cioè l’aspetto, per così dire, cognitivo, fosse affiancato da una dimensione empatica della conoscenza?

Tu non ricordi il volto di quella persona, le sue parole, il suo nome ma…rammenti

perfettamente come ti fa stare accarezzare quel volto, ascoltare quelle parole, pronunciare il suo nome.

La tesi di Memory è proprio questa: la somma di zero e zero non dà zero ma dà 1,2,3,4 a seconda dell’intensità del sentimento, dell’empatia che si stabilisce tra i personaggi.

Anche la protagonista, infatti, inizialmente molto restia ad aprirsi riesce a comprendere – con un percorso lungo ed articolato – che è possibile avere fiducia negli uomini, è possibile aprirsi nuovamente al mondo, è possibile amare.

Si, amare.

Lo so, che noia, direte voi.

Sempre lì torno.

Eh si ragazzi, lo so è noioso parlare di amore in un mondo ed in un’epoca in cui l’amore sembra non esistere.

Tuttavia, guardate che l’amore e non parlo solo dell’amore fisico carnale, passionale o dell’amore consistente nello stare insieme come coppia alimenta ogni nostra azione o scelta.

Ad esempio, ieri solo l’amore amicale (come lo definisce lei; io preferisco non definirlo perché – in realtà – non ho mai vissuto un legame così) ha trattenuto Tiziana Buccarella dal mandarmi aff.lo.

Solo l’amore ha trattenuto Alessandra Berton dall’urlarmi contro quando ho preso a male parole Elena.

E solo l’amore ha indotto Alfonso Bergamo a riportarmi in community.

Ed in Memory accade lo stesso: l’amore vince.

Parenti, circostanze, la vita tutta vogliono allontanarti da chi veramente ti senza interesse, senza chiedere nulla in cambio.

La protagonista si piega, abbozza, prosegue nel suo quotidiano ma oramai è

irrimediabilmente cambiata.

E quel cambiamento, nel film, lo si percepisce – ancora e sempre – attraverso la

sofferenza.

Stare distanti dalla persona che si ama e che ti ama significa soffrire, significa compiere con lo sguardo spento i gesti della vita, significa aspettare che arrivi la sera per ricominciare un tran tran quotidiano privo di senso.

Memory rende appieno tutta questa dinamica interna ai personaggi in un contesto

minimale, lontano da qualsiasi sfoggio di virtuosismo fotografico o registico.

I protagonisti agiscono all’interno, perlopiù di luoghi chiusi, le riprese privilegiate sono primi piani.

Primi piani che però hanno una caratteristica: sono spesso obliqui quasi a voler

sottolineare la complessità dei sentimenti che non arrivano mai diretti a colpire il cuore delle persone.

Ecco, per ricollegarmi alla lunga introduzione, dobbiamo ricordarci che l’unico fallimento in cui possiamo incorrere nella nostra vita è non arrivare al cuore delle persone.

Se almeno uno tra chi ci ascolta, ci legge, vede il nostro film si emoziona, allora non abbiamo fallito.

E certo non falliscono la loro prova attoriale due attori divini.

Di Jessica Chastain credo sia inutile che parli.

Tre volte candidata all’Oscar e vincitrice nel 2021.

Di Peter Sarsgaard, dico solo che per Memory ha vinto la Coppa Volpi a Venezia.

Ed è un premio più che meritato.

La sua recitazione ti colpisce dal primo istante: quell’aria persa e nello stesso tempo curiosa di chi sa che sta perdendo i ricordi e vuole crearne di nuovi per non arrendersi.

Avevo bisogno di un film così.

Avevo bisogno di un film che mi ricordasse che non sto fallendo.

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