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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo si colloca nel terzo atto de "Il Crogiuolo", durante il processo in cui John Proctor cerca di salvare la moglie Elizabeth dalle accuse di stregoneria. Fino a questo momento, Proctor ha tentato di restare al margine, cercando di risolvere tutto senza esporsi troppo. Ma il muro di fanatismo e bugie costruito da Abigail Williams diventa insormontabile, e l’unico modo per smascherarla è confessare pubblicamente l’adulterio: rivelare di averla "conosciuta", nel senso biblico del termine, ovvero avere avuto una relazione sessuale con lei.
Io l’ho conosciuta, signore. L’ho conosciuta. Nel luogo più appropriato… sulla lettiera delle mie bestie. L’ultima notte della mia vita serena, otto mesi fa. Faceva la serva in casa mia, signore. Un uomo può credere che Dio dorma, ma Dio vede tutto. L’ho capito ora. Vi prego, signore, vi supplico… giudicatela per quella che è. Poco tempo dopo, mia moglie, la mia cara buona moglie, ha preso questa ragazza, signore, e l’ha buttata fuori di casa. E siccome lei è quella che è, un mostro di vanità, signore…Sperava di ballare insieme a me sulla tomba di mia moglie! Ha avuto ragione di pensarlo, perché io l’avevo trattata con tenerezza. Dio mi perdoni, ho peccato con lei e in quel sudore c’era una promessa. Ma la sua è la vendetta di una sgualdrina e dovete rendervene conto. Mi sono messo completamente nelle vostre mani. Sono certo che ora mi crederete. Ho messo in piazza il mio onore. Ho scavato la fossa al mio buon nome… dovete credermi, signor Danforth! Mia moglie è innocente; soltanto sapeva riconoscere a prima vista una sgualdrina!
"Il crogiuolo" – titolo originale The Crucible – un’opera teatrale scritta da Arthur Miller nel 1953. Siamo di fronte a una delle drammaturgie americane più analizzate e reinterpretate, per via del modo in cui fonde un evento storico con un significato politico e umano molto più ampio. M
"Il crogiuolo" è ambientato a Salem, nel Massachusetts, nel 1692, durante i tristemente famosi processi alle streghe. Miller prende spunto da fatti realmente accaduti, trasportando il lettore/spettatore in un villaggio puritano dove la religione è legge e ogni deviazione dalla norma è sospettata di eresia o stregoneria.
Ma Miller, attraverso questa vicenda, costruisce un’allegoria del maccartismo, ovvero la caccia alle streghe ideologica portata avanti negli Stati Uniti negli anni ’50 contro presunti comunisti, di cui lo stesso Miller fu vittima. Siamo nella casa del reverendo Parris. Sua figlia Betty giace in stato catatonico dopo essere stata sorpresa a danzare nel bosco con altre ragazze, tra cui la nipote Abigail Williams. Subito, nella comunità si sparge il sospetto che si tratti di stregoneria. Abigail, ex domestica della famiglia Proctor, manipola la situazione per nascondere la verità: nel bosco c'è stato un rituale pagano, e lei vuole proteggersi. Ma dietro c’è di più: Abigail ha avuto una relazione con John Proctor, un contadino sposato, e ora vuole eliminare la moglie Elizabeth per prenderne il posto. Le ragazze, sotto pressione, cominciano ad accusare altre persone del villaggio di essere alleate del Diavolo. E da lì parte l’effetto domino.
John Proctor vive ora in un clima teso con la moglie Elizabeth. Il tradimento ha lasciato un segno profondo tra i due. Quando scoprono che Abigail ha accusato Elizabeth di stregoneria, John capisce che deve agire per fermarla. Nel frattempo, l'intero villaggio è nel panico: decine di persone vengono arrestate su semplici sospetti. Nessuna prova concreta, solo accuse verbali. Miller qui mette in scena la fragilità della giustizia quando è governata dalla paura. Il processo entra nel vivo. John Proctor si presenta in tribunale per difendere la moglie e smascherare Abigail, rivelando la loro relazione adulterina. Ma tutto gli si ritorce contro.
La situazione in aula diventa claustrofobica: è un palcoscenico in cui la logica non trova spazio. La verità diventa meno importante della coerenza con la narrativa dominante. John perde credibilità, anche perché Elizabeth – cercando di proteggerlo – nega il tradimento davanti ai giudici, contraddicendo la sua versione. Nel frattempo, le ragazze in aula fingono possessioni e visioni, rendendo impossibile ogni razionalità. La paranoia ormai ha preso il sopravvento.
Il tempo è passato, e diversi personaggi sono in prigione in attesa dell'impiccagione. Il reverendo Hale, un tempo convinto sostenitore della causa, è ora pentito e chiede a tutti di confessare anche falsamente, pur di salvarsi. John Proctor è pronto a firmare una falsa confessione, ma si rifiuta di farlo pubblicamente. Vuole salvare la sua vita, ma non al prezzo del proprio nome e della propria dignità. Alla fine, John decide di non firmare la confessione. Viene condannato a morte, ma riconquista la sua integrità.
"Io l’ho conosciuta, signore. L’ho conosciuta." Il tono è netto, secco. Proctor si assume pienamente la responsabilità, senza girarci intorno. La ripetizione sottolinea che non ci sono più scuse né mezze verità. Questo è un momento di esposizione totale. Si sta letteralmente mettendo a nudo. "Nel luogo più appropriato… sulla lettiera delle mie bestie.” Qui c’è un senso di disgusto verso se stesso. L’immagine della lettiera degli animali è volutamente degradante: è come se volesse punirsi pubblicamente per la bassezza del gesto. E questo dettaglio non è casuale: Miller vuole farci vedere quanto Proctor abbia interiorizzato la colpa. "Un uomo può credere che Dio dorma, ma Dio vede tutto." Una frase chiave. Parla di cieca presunzione: l’idea di potersi nascondere, di poter sfuggire al giudizio divino. Ma è anche il punto in cui Proctor torna a credere in qualcosa di più grande, non in termini religiosi, ma etici. È come se dicesse: "Ora vedo le cose come stanno, non posso più vivere nella menzogna".
"Giacque con me, signore, ed è stato un errore, ma in quel sudore c’era una promessa." Qui Miller inserisce un concetto potentissimo: il tradimento ha avuto un peso emotivo. E Abigail lo ha interpretato come una promessa implicita. Questo piccolo dettaglio getta una luce completamente nuova sul personaggio di Abigail: manipolatrice, ma anche ferita, ossessiva, innamorata in modo malato. "Ma la sua è la vendetta di una sgualdrina..." Proctor è consapevole che sta rischiando tutto, ma lo fa per salvare Elizabeth. E qui vediamo che l'amore, in lui, ha superato la vergogna. Non difende più se stesso, ma la donna che ha tradito, riconoscendone la lucidità e la forza morale: “soltanto sapeva riconoscere a prima vista una sgualdrina!” "Ho messo in piazza il mio onore. Ho scavato la fossa al mio buon nome..." Per Proctor, il "buon nome" è tutto. È la sua identità. È quello che lascia ai figli. E lo sacrifica davanti a tutti, pur di riportare equilibrio nella follia che sta devastando la comunità. Il gesto è disperato, ma profondamente umano.
Questo monologo è il momento in cui John Proctor diventa un uomo disposto a perdere tutto per un barlume di giustizia. Arthur Miller lo scrive in modo spoglio, senza retorica: ogni parola è ferita, ogni frase è un passo verso la liberazione personale. C’è solo un uomo che ammette i suoi sbagli e tenta di riprendersi il diritto di dire la verità in un mondo che non la vuole più sentire. Ed è in questo momento che Il crogiuolo smette di essere un dramma storico e diventa qualcosa che ci tocca direttamente.
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