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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel contesto del film, questo monologo arriva in un momento decisivo per il personaggio di Marco (Saul Nanni). Dopo cinque anni passati ad amare in silenzio Guenda — senza mai avere il coraggio di confessare i suoi sentimenti — Marco arriva finalmente al punto di rottura con se stesso. Lo fa in pubblico, lo fa in modo maldestro, e lo fa con un tipo di coraggio che non è quello da “protagonista cool”, ma da ragazzo qualunque che decide di dire la verità, anche a costo di sembrare ridicolo.
Il tono della scena richiama volutamente un certo tipo di dichiarazione “alla John Cusack sotto la finestra”, ma lo stile è più dimesso, più da provincia italiana. Il gesto eroico qui non è alzare il volume della radio sotto la pioggia, ma ammettere di essere stati codardi troppo a lungo. Ed è proprio in questa fragilità dichiarata che il monologo trova la sua forza.
MINUTAGGIO: 1:28:46-1:30:00
RUOLO: Marco
ATTORE: Saul Nanni
DOVE: Netflix
Oggi… oggi per la prima volta mi hanno detto che sono coraggioso. Mi hanno anche detto che sono un pò uno sfigato però insomma, questo lo sapevo, quindi mi sono concentrato sulla prima parte. Mi hanno detto che sono coraggioso perché mi sono innamorato; perché non ho avuto paura di questa cosa enorme, gigante, che insomma… Ti rovina, ma che ti fa fare delle cose incredibili come quella che sto facendo adesso. Quindi Gwenda è vero. Io sono uno sfigato perché ti amo da cinque anni, e non ho mai avuto le palle di dirtelo. Però sono anche coraggioso, quindi te lo dico qui davanti a tutti, facendo quello che mi viene meglio. La mia solita bella figura di merda.
Il film segue una struttura corale: tante storie che si intrecciano, tutte ambientate in una Riccione che diventa teatro naturale dei riti di passaggio estivi.
Marco è il cuore da cui si apre il racconto: torna a Riccione ogni estate per inseguire un’illusione d’amore. Ama Guenda, da cinque anni, in silenzio e con ostinazione, nonostante lei sia stabilmente fidanzata. Un sentimento adolescenziale che già nel setup racconta molto: il bisogno di restare legati a una versione idealizzata di sé e dell’altro. È, in fondo, il mito della “ragazza d’estate”, archetipo caro alla commedia italiana, da Sapore di mare in avanti. Al suo arrivo, Marco alloggia in un bed and breakfast gestito da Gualtiero, ex bagnino che si presenta come seduttore navigato, quasi un relicto degli anni '80, custode della mitologia da spiaggia. Questo personaggio ha una funzione doppia: è sia spalla comica, sia una sorta di narratore implicito di un passato fatto di conquiste fugaci e spensieratezza, che oggi sembra quasi impensabile.
Con Marco alloggia Tommy, una figura volutamente marginale ma non priva di fascino: pigro, consumatore abituale, è il classico personaggio che osserva più che agire. E proprio in questo suo non agire finisce per diventare specchio dell’apatia generazionale di una parte dei ragazzi rappresentati. Poi c’è Furio, figlio del proprietario dello stabilimento balneare "Cesare", e sua sorella Mara, personaggio femminile dinamico e risoluto, inserito in un microcosmo familiare che gestisce la spiaggia e funge da centro gravitazionale per tutti gli altri. Arrivano anche due figure chiave, che portano energia nuova alla dinamica del gruppo:
Vincenzo, ragazzo cieco con madre iperprotettiva, viene introdotto come outsider assoluto. Il suo percorso, invece, è uno dei più compiuti del film. È attraverso l’incontro con Furio e poi con Camilla, che vive la sua prima esperienza sentimentale, fisica e affettiva. La "carbonara senza panna" di cui Furio gli parla, diventa una metafora di autenticità e semplicità nei rapporti, uno dei momenti più interessanti in termini di scrittura.
Ciro, invece, viene letteralmente “pescato” dalla spiaggia: arriva da Napoli con il sogno della musica e finisce per diventare bagnino nello stabilimento. Ciro rappresenta il sogno da rincorrere anche quando le circostanze sembrano casuali. A Riccione conosce Lucia, figlia del capo, e la loro storia aggiunge quel pizzico di classismo amoroso che non guasta mai nelle commedie estive.
“Oggi… oggi per la prima volta mi hanno detto che sono coraggioso.” Marco non si considera affatto coraggioso. La frase ha un ritmo esitante (“Oggi… oggi per la prima volta...”), come se stesse prendendo tempo per trovare le parole, o per accettare quello che sta per dire. È uno di quei momenti in cui il personaggio si scopre mentre parla. “Mi hanno anche detto che sono un po’ uno sfigato però insomma, questo lo sapevo, quindi mi sono concentrato sulla prima parte.” Qui emerge chiaramente l’autopercezione di Marco. Il termine “sfigato” non è solo autoironico, è anche una corazza: Marco lo usa per anticipare il giudizio altrui, per disinnescare il ridicolo. Il fatto che “si sia concentrato sulla prima parte” ci dice che c’è una tensione tra il bisogno di credere a qualcosa di buono su di sé e la consapevolezza dei propri limiti. Un mix molto realistico, molto umano.
“Mi hanno detto che sono coraggioso perché mi sono innamorato; perché non ho avuto paura di questa cosa enorme, gigante, che insomma… Ti rovina, ma che ti fa fare delle cose incredibili come quella che sto facendo adesso.” L’innamoramento viene descritto con immagini forti: “una cosa enorme, gigante, che ti rovina”. Questo è amore visto dalla prospettiva di un adolescente: qualcosa che non controlli, che ti travolge, che può farti molto male — e proprio per questo, se lo affronti, sei coraggioso. È interessante notare come Marco riconosca il valore del sentimento non nel suo esito (essere corrisposto o no), ma nel gesto stesso dell’esporsi.
“Quindi Guenda è vero. Io sono uno sfigato perché ti amo da cinque anni, e non ho mai avuto le palle di dirtelo.” La confessione vera e propria arriva solo adesso, dopo tutto il preambolo. Ma il punto non è solo “ti amo”. È il tempo (“da cinque anni”) e la mancanza (“non ho mai avuto le palle”) a rendere il momento carico. Marco non sta cercando di conquistare Guenda. Sta finalmente restituendo a se stesso un pezzo di verità che aveva tenuto chiusa troppo a lungo. “Però sono anche coraggioso, quindi te lo dico qui davanti a tutti, facendo quello che mi viene meglio. La mia solita bella figura di merda.” La chiusura è perfetta per il personaggio: un mix di coraggio e autoironia. La “bella figura di merda” è l’antieroe che si espone sapendo che potrebbe fallire — ma lo fa lo stesso. È una frase che funziona sia come battuta, sia come sintesi del tono del film: leggero, autoironico, ma in grado di toccare corde sincere.
Questo monologo funziona perché è disarmato. Non ha frasi a effetto, non ha retorica da copione. È costruito intorno a una goffaggine dichiarata, e proprio per questo risulta autentico. Marco non è un personaggio che si impone, ma uno che si espone. Non è un vincente, ma qualcuno che cerca — magari tardi, magari male — di essere onesto. E in un film che vive di piccole confessioni estive, questa è probabilmente la più importante.
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