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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo è uno dei momenti più rappresentativi di Lo Spietato. È l’inizio della sua autonarrazione, un elemento chiave del film: Santo si racconta da sé, e nel farlo cerca di giustificare (o semplicemente spiegare) il suo presente violento partendo dal suo passato. Lo fa con un tono asciutto, senza indulgenze, con frasi secche, come “Non c’era molto da discutere. Dovevano morire tutti.” Una dichiarazione fredda che ci catapulta nel suo universo morale: un mondo dove l’empatia è un lusso che nessuno può permettersi.
MINUTAGGIO: 5:51-10:00
RUOLO: Santo Russo
ATTORE: Riccardo Scamarcio
DOVE: Netflix
Non c’era molto da discutere. Dovevano morire tutti. Sa can sandire. Forse è meglio cominciare dall’inizio. Ancora oggi mi ricordo di quando siamo partiti dalla Calabria, da Platì. Io, mia madre e mio fratello Luigi. Siamo rimasti in treno tutta la giornata, e la notte successiva. Milano era ancora un mistero, per me. Ero convinto di andare proprio in un posto fuori dal normale. Ma della città, del centro insomma, quella mattina non ho visto quasi niente. Mio padre si era già trasferito da qualche tempo. Aveva trovato una sistemazione fuori città, più precisamente a Buccinasco, che allora si chiamava Romano Buccinasco. Quattro case, non come Platì, ma quasi. L’unica vera differenza è che faceva un freddo cane. No… ho capito in fretta che non era proprio un mondo nuovo quello che andavamo a scoprire. A Platì mio padre faceva il pastore; a Buccinasco si era reinventato muratore. Mio padre era un uomo d’altri tempi. Apriva la bocca solo per mangiare e bestemmiare. Sapevo che a Platì era stata affiliato all’andrangheta. Ma dopo uno sgarro era stato come si dice in gergo “spogliato”. Per questo se ne era andato. Poteva andargli molto peggio. C’è chi è stato ammazzato per molto meno. Non ci pensavo a fare il delinquente di mestiere. Però mi capitava di passare davanti al br del quartiere, il Saloon. E allora li vedevo, i delinquenti quelli veri. Gente che rubava e ammazzava come io consegnavo il petto di manzo o lo stinco di porto. Vedevo i Gaetani, erano cugini. Non si separavano mai, sempre in coppia. Se c’era uno, potevi scommetterci che c’era anche l’altro. Insieme a loro, c’era anche il proprietario del Saloon, Spadafora. Stavano al top della catena alimentare. In qualche modo erano figli di papà La strada nelle ‘Ndrine di Platì ce l’avevano già spianata grazie alle parentele eccellenti. Non come me, marchiato a fuoco dall’infamia di mio padre. Gli portavano tutti rispetto, ma quelli non si erano sudati niente.
"Lo spietato" è un film italiano del 2019 diretto da Renato De Maria, con protagonista Riccardo Scamarcio. È ispirato al romanzo-inchiesta Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, e si muove tra realtà e finzione, cronaca e costruzione narrativa. Racconta l’ascesa criminale di Santo Russo, personaggio ispirato vagamente a Saverio Morabito, un ex boss della ‘ndrangheta poi divenuto collaboratore di giustizia.
Siamo nel Nord Italia, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta. Santo Russo è un ragazzo calabrese cresciuto in una famiglia tradizionale, ma con una certa predisposizione a non stare dentro le regole. Dopo un primo arresto da giovanissimo, capisce che la vita "normale" non fa per lui. Appena esce dal carcere, si trasferisce a Milano, che in quegli anni è una città viva, in piena espansione economica, ma anche spietata, come il titolo suggerisce.
Milano è il teatro perfetto per chi, come lui, vuole salire in fretta senza troppi scrupoli. E da qui parte il racconto della sua trasformazione. Non stiamo parlando di una discesa negli inferi, ma di una scalata consapevole. Vuole vivere bene, vuole soldi, macchine, vestiti, donne. Ma soprattutto, vuole rispetto.
Santo diventa un boss della malavita. Non ha legami profondi con nessuna organizzazione mafiosa tradizionale, ma si muove a cavallo tra diverse famiglie e ambienti. Tratta con calabresi, siciliani, camorristi, imprenditori senza scrupoli e poliziotti corrotti. Ha un suo codice personale – molto mobile – e non si fa problemi a eliminare chi ostacola i suoi piani.
Accanto a lui ci sono personaggi come Slim (l’amico fedele, complice e specchio della sua coscienza, sempre in bilico), Mario Barbieri (il socio che rappresenta il volto “pulito” del crimine), e Mariangela (la moglie, simbolo della vita borghese che Santo cerca di costruire e distruggere allo stesso tempo). E poi c’è Annabelle, la donna che rappresenta la sua parte più istintiva e autodistruttiva, quasi una via di fuga.
Il monologo si apre con una frase definitiva, "Dovevano morire tutti", che non è solo un'espressione di spietatezza, ma l'inizio di un meccanismo narrativo di autodifesa morale. Santo ci dice subito dove siamo arrivati, ma poi ci trascina indietro, alle radici della sua storia.
Il trasferimento dalla Calabria alla periferia milanese non viene descritto come un’evasione, ma come una traslazione laterale: da un contesto povero e chiuso a un altro altrettanto limitato, ma con temperature più basse. Lo spaesamento iniziale non è tanto culturale quanto affettivo: “Milano era ancora un mistero” è la voce di un ragazzino che non ha strumenti per decifrare il mondo che lo circonda. Il padre è una figura muta e cupa, segnata dall’umiliazione mafiosa: è stato “spogliato”, termine che nel gergo criminale significa degradato, cancellato dalla gerarchia. Ecco il punto chiave: Santo non eredita il potere, ma lo stigma. Questo lo pone in una posizione ambigua rispetto all’ambiente mafioso: non ne è parte per diritto di sangue, ma lo osserva da fuori, con frustrazione e desiderio.
Quando racconta del Saloon, bar del quartiere e microcosmo criminale, Santo ci parla dei “veri delinquenti” come figure quasi mitologiche. I Gaetani, Spadafora, sono visti con un misto di ammirazione e disprezzo. Ammirazione per il potere che hanno, disprezzo perché non se lo sono guadagnato. “Stavano al top della catena alimentare” è un’immagine darwiniana: in quel mondo, o diventi predatore o vieni mangiato. E lui è ancora un ragazzo che consegna carne, un lavoratore onesto e invisibile, ma che intanto osserva, memorizza, assorbe il codice. Tutta la narrazione è filtrata da Santo adulto. C’è un distacco apparente tra il presente del narratore e il passato del ragazzo, ma in realtà il tono rimane uniforme, cinico, pratico, come se il trauma fosse già stato normalizzato. Nessun dolore viene raccontato come dolore. La sofferenza non è negata, è derubricata.
Questo monologo è un modo per legittimare la violenza di Santo nel presente raccontando un passato che l’ha reso inevitabile. La narrazione è fredda, chirurgica, e in questo sta la forza del personaggio: non cerca redenzione, ma comprensione.
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