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~ LA REDAZIONE DI RC
“Arrival” (2016), diretto da Denis Villeneuve, è un film di fantascienza che gioca su un doppio binario: da una parte la narrazione “classica” dell’incontro con una razza aliena, dall’altra una riflessione intima e sorprendentemente personale sul tempo, sul linguaggio e sulle scelte che definiscono una vita. Tutto parte da un evento improvviso: dodici misteriose navicelle aliene appaiono in punti diversi del pianeta, sospese a pochi metri da terra, senza alcuna spiegazione. Una di queste si trova in Montana, negli Stati Uniti. Il governo americano, come altri governi nel mondo, cerca di stabilire un contatto con gli alieni per capire una cosa fondamentale: perché sono qui?
Per affrontare la sfida comunicativa, viene chiamata Louise Banks (Amy Adams), una linguista di fama internazionale, affiancata dal fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner). Il loro compito: decifrare il linguaggio degli alieni, che si presentano come creature tentacolari e gigantesche, chiamate informalmente “eptapodi”. Gli alieni non parlano: emettono suoni gutturali e, soprattutto, scrivono. Lo fanno in una forma grafica circolare, un linguaggio che non ha un inizio e una fine visibile, come se fosse pensato al di fuori della linearità temporale. Louise comincia così a entrare in un rapporto profondo con questo linguaggio. E da quel momento il film prende una piega meno “scientifica” e più esistenziale.
La chiave del film è proprio questa: il linguaggio degli alieni non è semplicemente un mezzo di comunicazione. È un modo di percepire il tempo. Gli eptapodi non vivono il tempo in maniera lineare, ma circolare. Non c’è un “prima” e un “dopo”, ma un tutto che esiste simultaneamente. Apprendere la loro lingua significa interiorizzare anche questa loro visione del tempo.
E qui Villeneuve e lo sceneggiatore Eric Heisserer (adattando il racconto breve “Story of Your Life” di Ted Chiang) fanno una mossa narrativa interessante: ci rendiamo conto che quelle che sembravano essere memorie della protagonista — flashback della figlia morta per una malattia rara — non sono ricordi del passato, ma visioni del futuro. Louise, apprendendo la lingua aliena, sviluppa anche la loro capacità: vede il tempo tutto insieme, in un presente eterno. Sa già che avrà una figlia. Sa che la perderà. Sa che il suo matrimonio (che non è ancora iniziato) finirà. Ma sceglie consapevolmente di vivere tutto lo stesso.
Questo è forse il nodo più forte del film: la libertà di scegliere qualcosa anche se sai che finirà con il dolore. Arrival ci porta a riflettere non tanto sugli alieni o sulla minaccia globale (che rimane sullo sfondo), ma su come il nostro rapporto con il tempo, con la perdita e con la memoria influenzi ogni nostra decisione.
“Arrival” non racconta una guerra, non mette in scena eroi in senso classico. Mostra un mondo sospeso, in cui la comunicazione è la vera chiave per la sopravvivenza. Louise non combatte contro qualcosa, ma cerca di capire. E in quel processo di comprensione, si trasforma lei stessa. È un film che parla di linguaggio, certo, ma non come codice, piuttosto come visione del mondo. E in questo senso Villeneuve fa cinema nel modo più puro: usando l’inquadratura, il ritmo, il non detto e la struttura stessa del racconto per farci vivere un’idea.
Ian: Jeremy Renner
Luise: Amy Adams
Luise: Ciao.
Ian: Ciao.
Luise: Weber ti sta cercando
Ian: E secondo te perché mi sono nascosto? Vieni su. Vieni.
Luise: Grazie. Si siedono vicini.
Ian: Bello, qui fuori, è?
Luise: Si, c’è una bella vista.
Ian: Via dalla confusione. Sai, stavo giusto pensando a te. Tu affronti le lingue da matematica, lo sai già, vero?
Luise: Grazie. Lo prendo come un complimento.
Ian: Si, infatti lo è. Tu… ci guidi destreggiandoti tra queste trappole della comunicazione di cui ero all’oscuro. Ora capisco. Per questo sono single.
Luise: Credimi, si può comprendere la comunicazione e restare comunque single.
Ian: (ridacchia). Oh…
Luise: Mi sembra che tutto quello che succede lì dentro alla fine dipenda da noi due.
Ian: Già, ma è una bella cosa, no? Io e te. Hai visto con che buffoni lavoriamo? Fortuna che ci sei tu.
La scena si svolge fuori dal guscio alieno, in un momento di pausa apparente. Ma proprio perché siamo fuori dal contatto diretto con gli eptapodi, qui succede qualcos’altro: si entra in contatto umano. I due protagonisti si siedono vicini, lontani dalla frenesia del protocollo militare e del linguaggio alieno, e si scambiano parole che sembrano leggere, ma che in realtà rivelano moltissimo sul loro rapporto e su cosa stia cambiando dentro di loro. “Sai, stavo giusto pensando a te. Tu affronti le lingue da matematica, lo sai già, vero?” Questa battuta è il punto d’ingresso nel cuore della scena. Ian, che è il fisico, riconosce a Louise una logica “matematica”, quindi precisa, strutturata, efficace. È un riconoscimento professionale, ma anche un’ammirazione implicita. La stima passa attraverso il linguaggio tecnico, ma si percepisce l’intento più personale.
E Louise risponde con ironia e intelligenza: “Grazie. Lo prendo come un complimento”. C'è rispetto, ma anche apertura. Non è solo un dialogo tra colleghi: si stanno cercando. “Per questo sono single” / “Si può comprendere la comunicazione e restare comunque single”. Qui avviene lo spostamento. Si passa dal tono tecnico a una sorta di confessione leggera. Ian prova a scherzare sulla propria solitudine come effetto collaterale della sua incapacità comunicativa. È autoironico, ma anche vulnerabile. Louise risponde con una battuta altrettanto affilata: è una complicità costruita sul non prendersi troppo sul serio, ma il messaggio è chiaro — entrambi portano addosso una certa solitudine.
“Mi sembra che tutto quello che succede lì dentro alla fine dipenda da noi due” È la battuta che unisce il piano personale e quello globale. Louise percepisce che, al di là delle gerarchie militari e delle tensioni internazionali, sono lei e Ian a guidare davvero l’interazione con gli alieni. E qui si nota la tensione emotiva: non è solo un compito, è una responsabilità che li avvicina. “È una bella cosa, no? Io e te”
Ian rompe l’ambiguità. Lo dice con semplicità, ma senza sottintesi: sta riconoscendo la connessione che sta nascendo tra loro, che va oltre la missione. È un momento estremamente umano. In un film che ruota intorno al tempo, alla conoscenza e al destino, questa frase sembra quasi piccola — ma è essenziale. Perché prepara, senza dichiararlo apertamente, quello che diventerà il futuro tra loro due (il futuro che Louise già conosce).
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