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~ LA REDAZIONE DI RC
Il film si apre con una situazione personale già tesa: Tim (Matthias Schweighöfer), programmatore di videogiochi, e Olivia (Ruby O. Fee), sua compagna, stanno cercando di superare un trauma devastante – la morte del loro bambino. Lei vuole fuggire, Parigi come via di fuga. Lui è incastrato in un limbo. Quando Olivia decide di lasciarlo, il mondo cambia all’improvviso: la porta di casa è bloccata da un muro di mattoni. Non metaforicamente. Proprio un muro vero, impossibile da abbattere.
Ma non sono gli unici. Tutto il condominio è letteralmente murato vivo.Il punto forte della trama è l’impostazione da labirinto claustrofobico: il muro è ovunque – finestre, scale, ogni accesso – e il materiale da cui è composto ha strane proprietà magnetiche. Questo non è cemento. È un enigma.
Tim, Olivia e una coppia di vicini decidono di scavare, letteralmente, verso il basso per raggiungere un vecchio rifugio antiaereo, l’unico punto che dovrebbe essere collegato con l’esterno. Inizia così una discesa quasi dantesca tra i piani del palazzo, in cui ogni appartamento è un piccolo mondo disturbato. C’è un cadavere senza mani. Oggetti impazziti dal magnetismo. Incontri inquietanti. Il tono passa rapidamente dal thriller al quasi horror psicologico, con inserti fantascientifici sempre più evidenti. La vera forza della trama è che non dà mai una risposta chiara e definitiva. Il muro è una trappola? Una punizione? Un sistema di difesa?
Arriva Yuri, un ex poliziotto interpretato da Murathan Muslu, che sembra saperne più degli altri. Lui sostiene che il muro sia una misura di emergenza per contenere un disastro chimico fuori controllo. Teoria del complotto? Allucinazione paranoica? Il film non lo dice esplicitamente, e questa ambiguità tiene alta la tensione. La scoperta delle telecamere nascoste dentro i rivelatori di fumo cambia nuovamente le carte in tavola: ora sembra tutto un esperimento, uno show distopico in stile Black Mirror. Quando raggiungono finalmente il rifugio antiaereo, trovano – ancora una volta – il muro. Nessuna via d’uscita. Nessuna salvezza semplice. Il gruppo torna nell’appartamento dell’amico morto di Yuri, dove scoprono una stanza segreta con monitor collegati a videocamere e libri su guerre mondiali imminenti. Qui la trama abbandona del tutto il realismo e abbraccia un’ansia da fine del mondo in pieno stile cospirazionista.
Tim, usando le sue competenze da programmatore, riesce a decifrare un sistema che potrebbe aprire un varco. Ma proprio quando sembra esserci una speranza concreta, Yuri si trasforma nel peggior ostacolo. È convinto che il mondo esterno sia contaminato e inizia a uccidere chiunque tenti di uscire. Questo è forse il passaggio più interessante del film: la paranoia diventa più pericolosa del nemico stesso, che forse nemmeno esiste.
Alla fine sopravvivono solo Tim e Olivia, che riescono ad attivare il sistema. Ed è qui che arriva la scoperta sconcertante: il film ci mette di fronte a una verità (che ovviamente non spoilero del tutto qui) che ribalta completamente la prospettiva. È una chiusura che non offre pace né conforto, ma apre interrogativi sul controllo, sull’isolamento forzato e su cosa sia davvero il pericolo: fuori o dentro di noi?
Tim: Matthias Schweighöfer
Olivia: Ruby O. Fee
Tim: Come hai potuto parlarne davanti a loro? Non importa a nessuno.
Olivia: Lo so, infatti è a me che interessa.
Tim: Ok, ed è questa l’occasione per tirarlo fuori?
Olivia: Si! Forse è questa. Non sappiamo neanche quanto tempo ci resta da vivere.
Tim: Ok. Cosa vuoi sentire? Si. E’ capitato a noi.
Olivia: Che cosa è capitato a noi? Dillo. Dillo!
Tim: Abbiamo perso un figlio! Questo è capitato! Ed è un dolore lancinante! E ora mi hai lasciato dopo sette anni perché non avevo le palle di cambiare un lavoro da un giorno all’altro!
Olivia: Da un giorno all’altro? Si trattava di cambiare le nostre vite, non del tuo stupido lavoro. Noi dovevamo ritrovarci, dovevamo guarire, e tu non ci hai permesso di farlo.
Tim: Queste sono puttanate!
Olivia: Tu non hai detto da allora! Niente! Quando siamo usciti dall’ospedale abbiamo guidato verso casa, ti sei seduto davanti al computer e fine. Non ne abbiamo mai più parlato. La nostra vita è fatta di silenzi e di promesse dove dici lo farò dopo. Dopo, dopo, dopo. Ma dopo non arriva mai.
Tim: Non è giusto. Io dovevo lavorare, ed era il mio modo…
Olivia: Non è giusto?
Tim: Di affrontare la cosa… Ascoltami!
Olivia: Io per colpa tua ho tenuto tutto dentro per due anni. Ora mi sono stancata. Voglio respirare ancora una volta, e con te non posso più farlo. Tu mi hai abbandonata. Avevo bisogno di te. Ti sei costruito un cazzo di muro intorno, e nessuno ti ha più potuto raggiungere. Tu hai rinunciato alla vita, ormai.
Siamo davanti a uno scambio che non ha solo valore narrativo – serve a chiarire la frattura tra i due protagonisti – ma che assume anche una funzione tematica chiave, riflettendo l'intero impianto simbolico del film. E se Brick è un film in cui un muro imprigiona fisicamente, in questa scena viene mostrato il muro emotivo che li ha resi prigionieri da ben prima che iniziasse la storia. Il confronto arriva in un momento in cui i due protagonisti sono già sotto pressione, bloccati in un incubo claustrofobico. Il mondo fuori non si può più raggiungere, e quel senso di isolamento estremo fa da detonatore a qualcosa che bolliva da tempo: la morte del loro bambino. Una perdita devastante, mai affrontata insieme. La scena è costruita come un dialogo interrotto per anni che finalmente esplode.
“Abbiamo perso un figlio! Questo è capitato! Ed è un dolore lancinante!” Tim è il classico personaggio che ha reagito al trauma con la chiusura, l’autoisolamento. È rimasto impigliato nella razionalizzazione, nel lavoro, nel silenzio. Il suo modo di affrontare il dolore è stato non affrontarlo. È per questo che arriva a urlare una verità evidente solo ora, come se fino a quel momento non avesse mai potuto nominarla. Quando lo fa, lo fa come una confessione gridata: "Abbiamo perso un figlio!" – è un urlo che non è rivolto a Olivia, ma a se stesso. Come se lo dicesse per la prima volta. “Io per colpa tua ho tenuto tutto dentro per due anni. Ora mi sono stancata.” Olivia è l’opposto: ha cercato il contatto emotivo, è rimasta ferma nel dolore, sperando che Tim la raggiungesse. Ma ha aspettato invano. Quando gli dice “tu mi hai abbandonata”, non parla di un gesto, ma di una lunga, lenta assenza emotiva. È una delle frasi più pesanti dell’intero dialogo, e rappresenta il vero tema della loro crisi: non è il lutto ad averli separati, ma l’incapacità di condividerlo.
E qui arriviamo alla frase chiave. “Ti sei costruito un cazzo di muro intorno, e nessuno ti ha più potuto raggiungere.” Questa battuta è il nucleo metaforico del film. Olivia mette in parole l’equivalente emotivo di ciò che sta accadendo fisicamente nell’edificio. Il muro non è solo quello che li isola dal mondo: è quello che Tim ha eretto dentro di sé, come strategia di sopravvivenza.
E ora, paradossalmente, il muro reale diventa l’unico modo per costringerlo a guardare in faccia il proprio dolore. Un altro snodo forte del dialogo è il tema del tempo, espresso da Olivia: “La nostra vita è fatta di silenzi e di promesse dove dici lo farò dopo. Dopo, dopo, dopo. Ma dopo non arriva mai.” Questa è una frase che pesa. È una condanna alla procrastinazione emotiva di Tim. È qui che il film mostra uno dei suoi punti più dolorosi: la gestione del trauma non è qualcosa che può essere rimandata, né affrontata in solitudine. Olivia si è stancata di aspettare un “dopo” che non è mai esistito. E ora che il tempo potrebbe davvero finire, decide che il momento è adesso, anche se fa male.
Da un punto di vista drammaturgico, il dialogo è costruito senza retorica, senza frasi levigate. È sporco, interrotto, con botta e risposta accesi, sbavature emotive, contraddizioni. Le battute si accavallano, i personaggi si parlano addosso, si interrompono, si urlano addosso – tutto contribuisce a creare un senso di realismo emotivo. E soprattutto: non cercano di convincersi a vicenda, ma di farsi sentire. È comunicazione disperata, che non mira a risolvere ma a esplodere.
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