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~ LA REDAZIONE DI RC
Christopher Reeve è uno di quei nomi che, anche a distanza di decenni, rimane scolpito nella memoria collettiva. Non solo per il suo volto, diventato sinonimo di Superman per un’intera generazione, ma per la traiettoria umana e professionale che ha attraversato. Una storia che ha a che fare con la gloria, con la tragedia, ma anche con la forza ostinata di non smettere mai di lottare. Reeve nasce il 25 settembre 1952 a New York. Famiglia benestante, educazione classica, una passione precoce per la recitazione. Frequenta la Cornell University e poi la Juilliard School, dove studia con John Houseman (lo stesso che ha formato attori del calibro di Robin Williams). Il suo background è fortemente teatrale: Shakespeare, Ibsen, ruoli drammatici affrontati con rigore, tecnica, disciplina.
Quando arriva l’occasione di interpretare Superman, Reeve è giovane, ha poco più di 25 anni e non è ancora una star. Anzi, è quasi sconosciuto al grande pubblico. È alto, ha la mascella scolpita, ma soprattutto ha quella qualità quasi indefinibile che rende credibile un personaggio larger than life come Kal-El — e allo stesso tempo lo rende autentico quando si trasforma nel goffo e impacciato Clark Kent. E qui c’è già una parte della sua bravura: non si limita a “fare” Superman, ma gli dà un’umanità che funziona ancora oggi.
Tra il 1978 e il 1987 interpreta Superman in quattro film. La popolarità esplode, i manifesti con il suo volto sono ovunque, il nome Reeve diventa sinonimo del supereroe per eccellenza. Ma come spesso accade, il grande successo è anche una gabbia. Reeve cerca di scrollarsi di dosso il mantello e tornare al teatro, al cinema d’autore, ai ruoli più sfumati.
Negli anni '80 e '90 lavora in produzioni come Somewhere in Time, The Bostonians, The Remains of the Day, Street Smart. Fa anche televisione e continua a lavorare sul palco. La sua recitazione mantiene sempre una certa sobrietà, una misura classica, che si nota soprattutto quando si confronta con attori più istintivi. Reeve non “esplode” mai: costruisce.
Il 27 maggio 1995, durante una gara di equitazione in Virginia, Reeve cade da cavallo. L’impatto è devastante: frattura delle vertebre cervicali, paralisi totale dal collo in giù. Quello che segue è un momento che segna la cultura pop di quegli anni. L’attore che ha dato corpo e volto al supereroe per eccellenza, ora è costretto su una sedia a rotelle, collegato a un respiratore.
Ma Reeve non sparisce. Anzi, inizia una seconda vita. Diventa attivista, sostenitore della ricerca sulle lesioni spinali, fonda la Christopher Reeve Foundation, si batte per l’indipendenza delle persone con disabilità, per il diritto alla cura, per l’accesso alla scienza. Torna a recitare, dirige film, scrive libri. È presente, lucido, tenace.
Christopher Reeve muore il 10 ottobre 2004, a 52 anni, per un arresto cardiaco causato da una complicazione infettiva. Lascia una moglie, Dana Reeve (che morirà di tumore meno di due anni dopo), e tre figli.
E lascia anche un’eredità fatta di cinema, di impegno, di dignità. Per molti, resta il Superman. Ma chi conosce anche solo un po’ la sua storia, sa che il suo coraggio più grande non è mai stato quello raccontato sullo schermo.
Entriamo nel dettaglio di trama e tematiche dei quattro Superman con Christopher Reeve. Più che una semplice saga supereroistica, è una sequenza di film che riflette il modo in cui il cinema americano (e il pubblico) ha rielaborato l’idea del supereroe tra fine anni ’70 e metà anni ’80. E il modo in cui Reeve ha interpretato quel ruolo ha fatto la differenza.
Il film racconta l’origine di Superman: dalla distruzione del pianeta Krypton all’arrivo sulla Terra, fino alla scoperta dei suoi poteri e al desiderio di usarli per il bene. Dopo un’infanzia passata a Smallville, Clark Kent si trasferisce a Metropolis e lavora al Daily Planet, dove conosce Lois Lane. Parallelamente, Lex Luthor (Gene Hackman) mette in atto un piano per manipolare la faglia di Sant’Andrea e far saltare metà della California, arricchendosi con investimenti immobiliari. Superman dovrà sventare il disastro e salvare Lois, sfidando anche le regole del tempo. Il cuore del film è la mitologia dell’eroe. Donner imposta tutto come una sorta di leggenda moderna, con toni epici (grazie anche alla colonna sonora di John Williams). Superman è quasi una figura messianica, mandato da Jor-El per guidare l’umanità. Il film tocca anche il tema del doppio (Clark/Superman) e dell’identità: chi è davvero il protagonista? L’alieno con poteri immensi o il ragazzo timido che si nasconde dietro gli occhiali? Un momento chiave è la scena in cui Superman vola con Lois per la prima volta. È puro romanticismo anni ’70, ma serve anche a raccontare la difficoltà di connessione tra due mondi: quello di chi è “oltre” e quello di chi è umano.
Il film riprende esattamente dove si era interrotto il primo. Durante un salvataggio nello spazio, Superman inavvertitamente libera tre criminali kryptoniani — Zod, Ursa e Non — che arrivano sulla Terra e decidono di conquistarla. Intanto, Clark rivela la sua vera identità a Lois e rinuncia ai poteri per vivere da uomo comune. Ma l’invasione lo costringe a riprendere il suo ruolo. Nel finale, Superman affronta Zod e gli altri nella Fortezza della Solitudine. Qui il tema centrale è la rinuncia. Cosa succede quando un eroe mette da parte ciò che lo rende speciale per amore? Superman sperimenta la propria umanità e, per la prima volta, la debolezza fisica e morale. È anche un film che riflette sul potere: Zod e i suoi agiscono con arroganza, pretendendo sottomissione. Superman è l’unico a usare il potere come servizio, non come dominio. La relazione con Lois prende un’altra dimensione: lei vede finalmente l’uomo dietro il mito. E questa consapevolezza — seppur cancellata alla fine — cambia il tono del film. L’eroismo qui è più personale, più intimo.
Il film si apre con Clark che torna a Smallville per una riunione scolastica e ritrova Lana Lang, suo amore adolescenziale. Intanto, un programmatore informatico di nome Gus Gorman (Richard Pryor) viene reclutato da un magnate corrotto, Ross Webster, per costruire un supercomputer e creare una kryptonite sintetica. La nuova kryptonite ha un effetto imprevisto: corrompe moralmente Superman, che diventa cinico, egoista e pericoloso. In una delle scene più note, Superman si sdoppia e combatte contro la sua versione “buona” in uno sfasciacarrozze. Qui si parla apertamente di conflitto interiore. L’idea della kryptonite sintetica come droga morale è interessante: Superman non diventa fisicamente debole, ma psicologicamente distorto. C’è una lotta interna tra l’eroe pubblico e l’uomo privato, che trova la sua massima espressione nello scontro tra Superman e Clark Kent. Il film tenta anche di mostrare un Superman più umano, con legami affettivi diversi dal solito (la dinamica con Lana è più semplice e sincera di quella con Lois). Il problema è che tutto questo si perde spesso in toni farseschi, che minano la coerenza del racconto.
Superman viene coinvolto in un dibattito globale sul disarmo nucleare. Dopo una lettera di un bambino, decide di raccogliere tutte le testate nucleari del pianeta e lanciarle nello spazio. Ma Lex Luthor torna in scena, crea un nuovo nemico — Nuclear Man — utilizzando un capello di Superman e una testata lanciata nello spazio. I due si scontrano mentre il mondo osserva il tentativo (fallito) di Superman di risolvere i conflitti dell’umanità da solo. È il film più politico della saga. Affronta il tema della responsabilità globale, della guerra e dell’etica dell’intervento. Superman qui non è solo un salvatore, ma un personaggio che si interroga su cosa significhi davvero “fare la cosa giusta”. Può un solo uomo, per quanto potente, decidere per il destino del mondo? Il problema è nella realizzazione: i buoni propositi si scontrano con un budget povero, effetti datati e una sceneggiatura frettolosa. Nuclear Man è un antagonista poco sviluppato, quasi caricaturale. Ma l’idea alla base è chiara: Superman come figura morale, non solo mitica.
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