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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Winnie è uno dei momenti più emblematici di Giorni Felici, non tanto per ciò che succede – perché come spesso accade con Beckett, “succede” poco o niente – ma per il modo in cui le parole funzionano come tentativo di resistenza. Winnie parla, si aggrappa al linguaggio come si aggrappa agli oggetti nella sua borsetta, come si aggrappa alla memoria. Ogni parola, ogni gesto, ogni frammento di frase è parte di una lotta contro il silenzio e la sparizione.
WINNIE "GIORNI FELICI" DI SAMUEL BECKETT
Oh oggi mi parlerai, questo sarà un giorno felice.
Un altro giorno felice.
Insomma, dove ero arrivata… il mio pelo, sì, più tardi, mi farà molto comodo più tardi.
Ho in testa… sì, ce l’ho, ho il cappello in testa… non posso togliermelo, adesso. Pensare che ci sono dei momenti in cui uno non può togliersi il cappello, neppure se ne andasse della sua vita. Momenti in cui non si può mettere, momenti in cui non si può togliere. Quante volte mi sono detta “Su mettiti il cappello, ora, Winnie, non c’è altro da fare, togliti il cappello ora, Winnie, da brava vedrai che ti farà bene” e non lo facevo. Non potevo farlo.
Li hai chiamati d’oro, quel giorno, dopo che l’ultimo invitato era partito… ai tuoi capelli d’oro… che possano sempre… che possano sempre. Quel giorno. Che giorno?
Questa poi. Le parole mancano, ci sono delle volte in cui perfino loro mancano. Non è vero Willie? Non è vero, Willie, che perfino le parole mancano, a volte?
E che cosa si deve fare, allora, aspettando che tornino? Strigliarsi il pelo, se non è già stato fatto, o se c’è qualche dubbio, tagliarsi le unghie se hanno bisogno di essere tagliate, sono tutte cose che ti aiutano a tirare avanti.
È questo che voglio dire.
È solo questo che voglio dire.
È questo che trovo meraviglioso, che non passa giorno… per dirla nel vecchio stile… senza qualche benedizione.
"Giorni Felici" ("Happy Days") di Samuel Beckett è uno di quei testi teatrali che a prima vista può sembrare assurdo, quasi incomprensibile, ma che sotto la superficie racconta in modo disturbante e preciso lo svuotamento dell'esistenza quotidiana. È un dramma scritto nel 1960, in lingua inglese, che rientra pienamente nel cosiddetto teatro dell'assurdo, anche se Beckett, come Ionesco, non amava molto le etichette. Qui provo a raccontarti la trama, ma come spesso accade con Beckett, la parola "trama" va presa con le pinze.
Siamo in un luogo astratto, all’aperto, in piena luce. Una campagna, o un deserto, o un cratere. Lo spazio è essenziale, quasi vuoto, dominato dalla presenza di Winnie, la protagonista, che all'inizio è sepolta fino alla vita in un tumulo di terra. Dietro di lei, c’è il marito, Willie, che vediamo raramente e che parla poco, quasi solo grugniti e monosillabi. La giornata inizia con un forte suono di campana: è il segnale che dà il via alla “giornata felice”.
Winnie è vestita in modo curato, ha una borsetta da cui estrae oggetti banali – uno spazzolino, un rossetto, una pistola, uno specchio – che usa in una routine quotidiana fatta di piccoli gesti, parole ripetute, aforismi citati a memoria. Parla tantissimo, a volte con sé stessa, a volte a Willie. Willie non risponde quasi mai.
Nell’Atto II, la situazione peggiora: Winnie ora è sepolta fino al collo, ma continua a parlare. Non può più usare le mani, non può più frugare nella borsa. La voce è l’unico strumento che le resta per resistere. Anche qui c’è la campana, e anche qui Willie fa una breve comparsa, ma più stanco, più distante.
Il testo non ha una "trama" nel senso classico, ma ha una struttura di progressivo degrado. È un ciclo ripetitivo: suona la campana, inizia la giornata, Winnie parla, si trucca, recita ricordi, si sforza di restare ottimista. Ma ogni azione è svuotata di senso e ripetuta come un rituale vuoto. Winnie si aggrappa con disperazione al linguaggio, ai ricordi, a ogni segno minimo di umanità. Dice spesso: “Oh, un altro giorno felice!” – frase che suona sempre più forzata, sempre più lontana dalla realtà.
Beckett qui lavora sull’essenziale: una figura umana intrappolata, che cerca di mantenere un'apparenza di normalità in un mondo che non le dà alcuna risposta. Il tumulo che inghiotte Winnie, atto dopo atto, è un’immagine forte della condizione umana – non metafisica, ma concreta. Il tempo passa, il corpo si deteriora, le abitudini si fanno ossessive, la comunicazione si spegne. Ma la mente continua a voler parlare, ricordare, esistere.
“Oh oggi mi parlerai, questo sarà un giorno felice. / Un altro giorno felice.”
Winnie apre il discorso con una dichiarazione che è più un’esortazione che una constatazione. “Oggi mi parlerai” – il riferimento è a Willie, il marito, che è presente fisicamente ma assente emotivamente. La sua è una speranza fragile, e subito dopo arriva la frase “un altro giorno felice”, che ricorre più volte nell’opera. Ma pronunciata così, fuori contesto e con il tono stanco del rito, suona quasi come una formula vuota. È un’illusione: Winnie lo sa, ma la pronuncia comunque. È un modo per non smettere di esistere.
“Insomma, dove ero arrivata… il mio pelo, sì, più tardi, mi farà molto comodo più tardi.”
Il pensiero si frantuma, come spesso accade nel suo flusso verbale. La mente salta da una frase all’altra, dal desiderio di comunicare alla gestione pratica del corpo. Il riferimento al pelo è domestico, banale, quasi ridicolo – ma dentro questo ridicolo c’è un controllo disperato. “Mi farà comodo più tardi”: c’è una logica quotidiana che Winnie continua a costruire, anche quando tutto attorno sembra privo di senso. La cura del corpo – anche solo il pelo, le unghie – è una forma di occupazione mentale e di dignità.
“Ho in testa… sì, ce l’ho, ho il cappello in testa… non posso togliermelo, adesso.”
Qui il monologo si apre a un discorso più simbolico. Il cappello diventa una piccola prigione mentale. Non può essere tolto, “neppure se ne andasse della sua vita”. C’è qualcosa di profondamente angosciante in questa immagine: un oggetto apparentemente innocuo che diventa impossibile da rimuovere. Come se Winnie fosse bloccata in una condizione da cui non si può uscire – e non parlo solo della terra che la inghiotte, ma di un'intera struttura di abitudini, ricordi, imposizioni.
“Li hai chiamati d’oro, quel giorno…”
Questa parte è forse la più intima e dolente. Il tono cambia. Si affaccia un ricordo. Qualcosa che riguarda Willie, un momento passato, quando i suoi capelli erano stati chiamati “d’oro”. C'è un tentativo di evocare un frammento di tenerezza, forse d’amore. Ma la memoria vacilla: “Quel giorno. Che giorno?”. La domanda è vera. Winnie non se lo ricorda più. E in quel momento, si sente il vuoto: il passato non consola, perché sta sparendo anche quello. I ricordi diventano vaghi, irraggiungibili.
“Le parole mancano, ci sono delle volte in cui perfino loro mancano.”
Questo è uno dei punti più nudi del monologo. Il linguaggio, unico strumento rimasto, si inceppa. Beckett fa dire a Winnie che persino le parole – che lei usa in continuazione – a volte mancano. È un paradosso potentissimo. È come se il ponte tra la mente e il mondo si rompesse. E allora cosa resta?
“Strigliarsi il pelo… tagliarsi le unghie…”
Qui Beckett dà la risposta. Resta il corpo. Restano i piccoli gesti, le cure meccaniche. Un modo di “tirare avanti”, dice Winnie. Questa frase – “tirare avanti” – è una chiave. Tutta l’opera è un continuo “tirare avanti”. Non vivere, non agire, non cambiare. Solo continuare, mentre tutto si riduce.
“È solo questo che voglio dire. È questo che trovo meraviglioso…”
Il finale ha un tono strano, sospeso tra l’autoillusione e l’autenticità. Winnie dice che ogni giorno porta “qualche benedizione”. È una frase pronunciata “nel vecchio stile”, come dice lei stessa, forse appresa, forse un ricordo lontano. Ma è proprio qui che il monologo tocca il suo nucleo: anche dentro il nulla, anche nell’immobilità, si può cercare un senso, per quanto fragile.
Non perché quel senso esista davvero, ma perché l’essere umano continua a volerlo cercare.
In questo monologo, Winnie diventa il simbolo di una resistenza senza eroismo. Nessun gesto eclatante, nessuna ribellione, solo parole e piccole azioni quotidiane. Eppure è proprio in questa fragilità ostinata che il testo di Beckett colpisce più duro. Winnie non è una martire, non è nemmeno una vittima. È semplicemente un essere umano che parla, perché non può fare altro. L’intero monologo è costruito come un flusso interrotto di pensieri, dove ogni parola è una zattera a cui aggrapparsi. E il teatro, quello vero, accade proprio lì: nello spazio tra una frase e l’altra, tra un gesto inutile e un ricordo svanito. Beckett, togliendo tutto, ci lascia nudi davanti a qualcosa che somiglia molto alla vita quando si toglie il superfluo.
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