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~ LA REDAZIONE DI RC
"Gli anni più belli" (2020) è un film di Gabriele Muccino, e si inserisce in quella scia del cinema italiano che prova a raccontare l’evoluzione del Paese attraverso le storie private, i legami d’amicizia e le tensioni generazionali. È un'opera che guarda chiaramente a “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, e lo fa senza troppo nasconderlo: c’è la stessa voglia di seguire il tempo che passa attraverso quattro personaggi che crescono, cambiano, si allontanano, si ritrovano.
La storia parte negli anni ’80, e ruota intorno a tre amici adolescenti: Giulio, Paolo e Riccardo. Sono amici molto diversi tra loro, ma uniti da un legame autentico, quasi istintivo. La loro amicizia viene presto travolta dall’arrivo di Gemma, una ragazza che entra nella loro vita durante un momento traumatico: la morte violenta del patrigno a cui lei assiste, episodio che segna la sua esistenza e la trama stessa del film. Gemma diventa un punto di riferimento, ma anche un elemento destabilizzante, specie nel rapporto tra Paolo e Giulio. Il film si sviluppa in archi temporali ben definiti, che coprono circa quarant’anni di storia italiana: dagli anni ’80 fino al presente. Ogni salto temporale è scandito da eventi storici reali, che fanno da sfondo ma non sovrastano la vicenda personale dei protagonisti: Tangentopoli, l’attacco alle Torri Gemelle, la crisi economica del 2008.
Questo uso del tempo serve a mostrare come le scelte personali siano influenzate – o a volte travolte – dai cambiamenti sociali e politici del Paese. Ma la chiave resta sempre nelle dinamiche tra i personaggi.
Giulio è il classico ragazzo brillante che diventa un avvocato di successo. Per lui il compromesso è una moneta spendibile, e non ha grandi problemi a sacrificare ideali per scalare la società. È l’immagine più esplicita del cinismo che si impone tra gli anni ’90 e 2000.
Paolo invece è il più idealista: diventa insegnante, crede nell’educazione, nella cultura, ma resta spesso ai margini. È anche il più fragile emotivamente e il più coerente con se stesso, anche a costo di pagare prezzi personali altissimi.
Riccardo è forse il personaggio meno approfondito tra i quattro: aspirante giornalista, incarna la passione intellettuale che fatica a trovare spazio in un mondo che cambia troppo in fretta.
Gemma è il personaggio più sfaccettato. Il suo rapporto con Paolo è il cuore sentimentale del film, ma il modo in cui affronta la vita – sempre in bilico tra fuga e ricerca di stabilità – la rende un personaggio difficile da incasellare. La sua storia è segnata dalla perdita, e proprio questo la avvicina e la allontana ciclicamente dagli altri.
Il titolo “Gli anni più belli” richiama quell’idea nostalgica che spesso si trova nel cinema italiano: il passato come qualcosa che non torna, ma che resta dentro. In realtà, il film non ha un’idea precisa di cosa siano davvero “gli anni più belli”: la forza della narrazione sta proprio nel mostrare che la bellezza può stare nei momenti imperfetti, nelle rotture, nei ritorni non richiesti, nelle parole mai dette. Ci sono due temi che Muccino maneggia più esplicitamente:
Giulio: Pierfrancesco Favino
Riccardo: Claudio Santamaria
Riccardo: Ao, ma non te faceva schifo la malavita che s’è magnata il paese che volevi cambiare?
Giulio: Parla piano, per favore.
Riccardo: Non ti bastava di averlo salvato da vent’anni di carcere a questo? Mò pure la figlia te scopi?
Giulio: Mbè, che c’è? Che c’entri te?
Riccardo: Che c’è???
Giulio: E’.
Riccardo: Da ragazzini se semo fatti un patto. Che ci saremmo sempre aiutati, te lo ricordi.
Giulio: Io a te ti ho aiutato sempre, non ti ho mai chiesto niente in cambio, mi pare. Il patto qual’era, scusa? Aiutamose però fra poveracci? E’? Si cambia, Ricca, se lavora, ce se evolve magari. Io la casa al lago non ce l’ho mai avuta, sopravvissù. A me nessuno m’ha mai regalato un cazzo. Tu la puzza della fame non sai neanche dove sta, di casa. Non mi rompere i coglioni, dai.
Riccardo: Ma chi sei, o? Non ti riconosco più, Giù. Lo sai che c’è? E’ meglio la puzza di fame, che essere disonesti e tradire gli amici di una vita.
Giulio: Ma disonesti cosa? Ma che cosa stai dicendo.
Riccardo: Vabbè, va. Levo il disturbo, che è meglio.
Giulio: Forse è meglio davvero, si hai ragione.
Riccardo: Sappi solo che io a te t'ho voluto bene davvero. Se ancora ti ricordi che vuol dire. Testa di cazzo.
Questa scena tra Giulio (Pierfrancesco Favino) e Riccardo (Claudio Santamaria) è forse una delle più intense dal punto di vista morale in Gli anni più belli. Non c'è un tradimento sentimentale in gioco, ma qualcosa di più profondo: la rottura di un patto generazionale e ideologico. Due amici cresciuti insieme che ora parlano lingue diverse, separati da un'idea opposta di dignità, lealtà e ambizione. Questa scena ha un tono completamente diverso rispetto a quella con Gemma. Qui c’è amara lucidità, nessuna ambiguità affettiva. È un confronto tra due uomini che si stimavano, e che ora non si riconoscono più.
"Ao, ma non te faceva schifo la malavita che s’è magnata il paese?"
Riccardo parte senza filtri. Il tono è da fratello maggiore deluso. Il riferimento alla “malavita” è chiarissimo: Giulio ha difeso legalmente un personaggio discutibile, simbolo del sistema che un tempo disprezzavano entrambi. E ora ha pure una relazione con la figlia. Questo, per Riccardo, è un tradimento completo degli ideali di gioventù.
Non è questione di invidia o di gelosia: è la frustrazione di chi ha resistito, restando fedele a se stesso, e si ritrova davanti un amico che ha scelto la via più conveniente.
Giulio: "Si cambia, Ricca. Ce se evolve."
Giulio si difende, ma lo fa con una sincerità brutale. Non nega di essere cambiato, rivendica il cambiamento. In questa battuta c’è tutta l’essenza del suo personaggio: uno che ha abbandonato l’idealismo in favore del pragmatismo. E lo dice quasi con fastidio verso chi non l’ha fatto:
“Io la casa al lago non ce l’ho mai avuta, sopravvissù. A me nessuno m’ha mai regalato un cazzo.”
Questa è la chiave. Giulio giustifica tutto (anche i compromessi etici) con l’autoassoluzione del self-made man. Si racconta come uno che si è fatto da solo, senza aiuti, e quindi autorizzato a prendersi quello che può. E qui si inserisce una dinamica fortissima di rancore sociale.
Riccardo: "È meglio la puzza di fame che essere disonesti."
Questa battuta ha un peso simbolico enorme. Riccardo la spara senza retorica, ma è quasi una sentenza. C’è un’etica di povertà consapevole in lui, un orgoglio che non ha bisogno di soldi o di status. Il confronto non è tra ricco e povero, ma tra chi ha mantenuto fede a sé stesso e chi ha smesso di guardarsi allo specchio. Riccardo non è invidioso: è deluso, profondamente. E quando chiude con:
“Sappi solo che io a te t’ho voluto bene davvero. Se ancora ti ricordi che vuol dire.”
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