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~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo nell’ottobre del 1973. Israele si prepara a celebrare lo Yom Kippur, la festa religiosa più importante dell’anno. Ma mentre il paese si ferma per il digiuno e la preghiera, Egitto e Siria lanciano un’offensiva militare congiunta, cogliendo completamente di sorpresa lo stato ebraico. È l’inizio della guerra dello Yom Kippur.
Golda Meir, prima (e unica) donna a ricoprire la carica di Primo Ministro in Israele, si trova al centro di una crisi militare, politica e personale. Gravemente malata, sottoposta in segreto a cure per un tumore, si rifugia in un bunker sotterraneo insieme ai suoi generali. Ma la malattia che la logora è solo una delle tante. C'è la pressione internazionale. C'è il sospetto, sempre più fondato, che l’intelligence abbia fallito. E c’è il timore costante di prendere la decisione sbagliata, quella che potrebbe far crollare tutto.
Il film si svolge nel giro di pochi giorni, ma è come se il tempo fosse congelato. Ogni scena è una stanza. Ogni stanza è una scelta. E ogni scelta ha il peso della Storia.
Golda ascolta, osserva, interroga. Passa gran parte del tempo seduta, o ferma, con una sigaretta in mano e lo sguardo perso nel vuoto. Ma non è passività: è concentrazione. È strategia. È consapevolezza.
Le vere battaglie sono tra lei e i suoi generali, alcuni pronti a suggerire soluzioni drastiche, altri chiusi nella convinzione di sapere meglio. Lei è sola. Eppure, è lì che si decide tutto. Fuori campo, intanto, si sentono le registrazioni reali dei combattimenti. Liev Schreiber nei panni di Henry Kissinger diventa la voce dell’America, ma anche un alleato ambiguo. Il loro dialogo a distanza è fatto di sarcasmo, diplomazia e calcoli a freddo.
E poi c’è Lou Kadar, interpretata da Camille Cottin. Non parla molto. Ma è sempre lì. Accende le sigarette a Golda, la guarda, la accompagna. Non è solo un’assistente: è un'ombra gentile. Un’umanità che resta.
"Golda" è soprattutto un film sul peso del comando. Golda Meir non viene celebrata, né messa sotto accusa. Viene mostrata così com’è: fragile, stanca, ma determinata. Capace di compassione, ma anche di freddezza. Il senso di colpa non è urlato, ma lo si legge nella postura, nei silenzi, nelle notti insonni.
Le accuse contro di lei – di non aver agito in tempo, di aver ignorato i segnali – sono parte della narrazione. Ma il film suggerisce una verità più scomoda: il potere è sempre parziale, sempre incompleto. E in guerra, anche la decisione “giusta” può sembrare un crimine.
Golda Meir: Helen Mirren
Henry Kissinger: Liev Schreiber
Kissinger:Pronto?
Golda: Signor Segretario.
Kissinger: Signora Primo Ministro
Golda: Mi dispiace averla svegliata, Henry.
Kissinger: Non fa niente.
Golda: Abbiamo di nuovo problemi con i vicini.
Kissinger: E questo mi dispiace. Posso chiedere chi ha sparato il primo colpo?
Golda: Colpire per primi avrebbe reso le cose più facili per noi, ma io ho dato al Presidente la mia parola.
Kissinger: Lo apprezzo questo.
Golda: Siamo stati sorpresi, Henry. E questa volta non finirà in una settimana.
Kissinger: Comincerò a fare pressioni diplomatiche.
Golda: Sì, per favore. Ma sia chiaro su un punto. Continueremo a combattere finché l’ultimo soldato egiziano non verrà rimandato al di là del canale. Non otterranno niente con la forza. Se vogliono indietro la loro terra dovranno riconoscere lo Stato Sovrano di Israele.
Kissinger: Sì, tutto chiaro.
Golda: Grazie Henry.
Kissinger: Buona fortuna.
Questo dialogo tra Golda Meir e Henry Kissinger è una piccola scena, ma dentro ci passa la geopolitica, la diplomazia, il carico emotivo della guerra, e soprattutto il modo in cui una leader tiene la linea mentre tutto attorno vacilla.
Siamo a poche ore dall’inizio della Guerra dello Yom Kippur. Israele è stato colto di sorpresa. I carri egiziani e siriani hanno oltrepassato le linee, e il paese è in uno stato di allerta totale.
Ecco che Golda chiama Kissinger. È notte. La guerra è appena esplosa, e la voce della Meir rompe il silenzio. Niente effetti sonori, niente pathos urlato. Solo la calma tesa di due persone che sanno di giocare una partita in cui ogni parola pesa.
K: Pronto?
Una risposta neutra, quasi banale, che fa da contrasto alla gravità della situazione. Ma è proprio questa quotidianità che apre lo spazio alla tensione: il potere non è sempre teatrale. A volte, inizia con un “Pronto?”.
G: Signor Segretario.
Golda chiama Kissinger con il suo titolo ufficiale. Un'apertura formale, rispettosa, ma asciutta. Nessuna frase di circostanza. Non c’è tempo.
K: Signora Primo Ministro.
Risposta speculare. Anche lui, formale. Un rispetto reciproco, ma già qui si avverte la distanza: non è amicizia, è alleanza strategica.
G: Mi dispiace averla svegliata, Henry.
Qui c’è Golda umana. La cortesia resta viva anche in piena crisi. Ma c’è anche sottotesto: non ti chiamerei, se non fosse una cosa grave.
K: Non fa niente.
Frase neutra, ma letta con il tono giusto (e nel film c’è), è il primo segnale che lui capisce perfettamente cosa sta succedendo. E che non serve girarci intorno.
G: Abbiamo di nuovo problemi con i vicini.
Questa è la battuta chiave del dialogo. Golda sdrammatizza, usando l’ironia eufemistica per descrivere un’invasione militare. Una frase glaciale, quasi sarcastica. Sta dicendo: Sì, è guerra. Di nuovo. Ma non voglio fare la vittima, voglio farti capire che sono già in controllo.
K: E questo mi dispiace. Posso chiedere chi ha sparato il primo colpo?
Kissinger sa benissimo la risposta. Ma questa è diplomazia pura. Chiede chi ha iniziato per avere un appiglio politico. Vuole poter dire agli americani e al mondo: “Israele non ha attaccato per primo”.
G: Colpire per primi avrebbe reso le cose più facili per noi, ma io ho dato al Presidente la mia parola.
Qui Golda rivendica una scelta morale e strategica. Non hanno attaccato preventivamente, anche se ne avevano il sospetto. È una battuta che contiene rimpianto e orgoglio insieme. Avrebbe potuto risparmiare vite, ma ha scelto la lealtà verso gli alleati. È una frase che pesa come una condanna e come una bandiera.
K: Lo apprezzo questo.
Kissinger risponde in modo laconico, ma il sottotesto è: ti sei comportata come dovevi, ora tocca a noi tenere la linea sul piano diplomatico.
G: Siamo stati sorpresi, Henry. E questa volta non finirà in una settimana.
Golda è diretta. Non cerca di nascondere la portata della crisi. C’è una lucidità spietata in questa frase. Lei sa che non sarà una guerra lampo. La voce qui si fa più grave, più cupa. È come se dicesse: questa volta potremmo davvero non farcela.
K: Comincerò a fare pressioni diplomatiche.
Una risposta prevedibile, ma è tutto ciò che può offrire in quel momento. Kissinger fa la sua mossa sul tavolo della politica estera. Ma il film lascia intendere che lei lo chiami per qualcosa di più del sostegno ufficiale. Forse per non sentirsi sola.
G: Sì, per favore. Ma sia chiaro su un punto: continueremo a combattere finché l’ultimo soldato egiziano non verrà rimandato al di là del canale. Non otterranno niente con la forza. Se vogliono indietro la loro terra dovranno riconoscere lo Stato Sovrano di Israele.
Questo è il climax del dialogo. Golda non sta solo parlando a Kissinger. Sta parlando al mondo. È il punto in cui dichiara:
Non cederemo.
Non negozieremo sotto attacco.
Non ci saranno concessioni unilaterali.
E la parola chiave è “riconoscere lo Stato Sovrano di Israele”. È una frase che è quasi un manifesto. È qui che la voce si fa acciaio. Non è rabbia. È determinazione.
K: Sì, tutto chiaro.
Kissinger prende atto. Non discute. È una risposta breve, quasi militare. L’equilibrio tra le due figure è perfetto: lei decide, lui accoglie.
G: Grazie Henry.
Ancora una volta, la cortesia in mezzo alla tensione. Golda non dimentica il ruolo dell’altro, ma resta lucida: sta ringraziando il segretario di stato americano, non un amico.
K: Buona fortuna.
Ed è con questa chiusura che il gelo torna. Non dice “ci sentiamo presto”, non dice “ce la farete”. Dice solo: buona fortuna. È una frase che pesa più di tante analisi. Perché dice, tra le righe: da qui in poi, siete da soli.
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