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Articolo a cura di...
~ CLAUDIA LAZZARI
Stile, ritmo, organicità. Una guerra non di sfondo ma di rumore, sottofondo assordante che sconvolge e scioglie la virile maschera sociale del combattimento a fuoco.
Una donna, Golda Meier (fantastica Helen Mirren), Primo Ministro israeliano che ha affrontato tragici eventi nel ‘900. Prima donna al timone di un governo in Israele.
Guy Nattiv farcisce Golda di un unico avvenimento, centrale nella carriera della leader: la guerra dello Yom Kippur. Una battaglia che coglie impreparato il popolo israeliano, attaccato a sorpresa dall’Egitto di Sadat e la Siria di Asad.
Trama aleatoria, lo leggo ovunque. Beh, sì. Bisogna conoscere i fatti delle guerre. E chi è che li conosce bene, se non prima di approcciarvi con intenzione per qualche motivo?
Golda Meier viene processata dal governo israeliano, come sempre accade quando si osservano inermi le morti di decine di migliaia di persone e poi ci si sveglia un mattino cercando un colpevole. Assolta dalle accuse, risponderà alle domande in maniera cruda e veritiera, mostrandoci la sua “complessità”, anch’essa sottolineata da molti come fosse inedita. Ma cosa c’è di ineditamente complesso in persone che per mestiere cercano e scelgono il modo per condannare a morte meno persone possibili in schemi di potere pieni di intrecci allucinanti?
Nulla. Non potrebbero mai essere le persone più semplici di questo mondo.
“Il mio istinto mi ha detto che la guerra era in arrivo. Ma io l’ho ignorato. Avrei dovuto mobilitare quella notte. Tutti quei ragazzi che sono morti. Io mi porterò quella pena fin dentro la tomba. La prego, non lo scriva questo”
Golda fuma, di continuo. E sta già morendo di cancro ai polmoni quando un mattino del 1973, durante il sacro giorno ebraico dello Yom Kippur, incontra d’urgenza i vertici militari del paese per discutere la possibilità di un attacco preventivo di Israele alle forze egiziane. Attacco che Meier, a differenza del consiglio, non vorrà fare inizialmente. Scegliendo di aspettare, una feroce mattanza prende piede e noi la viviamo attraverso le voci nella war room che riecheggiano dai dispositivi degli spettatori militari attoniti.
Uno strazio che si trascina come il corpo pesante e malato di Golda, che mantiene la sua durezza composta e il suo sarcasmo velato, anche quando si abbandona - per effetto della morte imminente sua e delle singole persone israeliane di cui s’annoterà le sorti su un taccuino - a slanci materni e ansie soffocanti.
Il punto di forza del film sono certamente i dialoghi. Brillanti e arguti, sostengono la personalità della protagonista in modo accattivante e leniscono la pesantezza emotiva della storia. Nicholas Martin stende una sceneggiatura complicata, deprivata di apici. Un unico infinito fondo nero in cui, al di là dei fatti scrupolosamente sostenuti anche da materiale veritiero, il focus sono le innumerevoli ragnatele tessute in anni e anni di storia che intrappolano i paesi come mosche in questi eventi gravissimi.
Uno spaccato che, specialmente al giorno d’oggi, non può restituire nulla di quanto potrà offrire tra qualche anno. Ma che fa capire quanto i giochi di potere non siano una semplice partita di scacchi e di quanto c’è da temere, di quanto poco conosciamo dello squallore coltivato dalla politica nei secoli e di come i leader che si trovano coinvolti in certe vicende debbano fare delle scelte che mai, in nessunissimo caso, li renderanno esseri umani.
“Quando mi chiesero, molti anni fa, quando pensassi che la pace sarebbe arrivata, io dissi: la data, quella non la so. Ma so a che condizioni arriverà. Ci sarà un grande leader che una mattina si sveglierà e proverà dispiacere per il suo popolo, per i suoi figli che sono caduti in battagli. Quel giorno sarà l’inizio della pace tra noi e loro”.
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