Golda: analisi del monologo di Moshe Dayan

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Moshe Dayan, pronunciato in Golda nel pieno della crisi della Guerra dello Yom Kippur, è uno di quei passaggi che condensano in poche frasi l’angoscia, la responsabilità e la pressione morale di una leadership militare in ginocchio. A differenza della tensione sotterranea del dialogo Golda-Kissinger, qui la parola si fa comunicato, dichiarazione pubblica, tentativo disperato di tenere insieme una nazione scossa.

Questa battaglia finirà con una vittoria

MINUTAGGIO: -
RUOLO: Moshe Dayan

ATTORE: Rami Heuberger

DOVE: Amazon Prime Video

ITALIANO

I carrarmati nemici hanno penetrato le nostre linee e occupato diversi avamposti. Abbiamo sofferto perdite in vite umane e in territorio. Non possiamo negarlo. Questo è più o meno quanto ci aspettavamo dal primo giorno di battaglia. Non posso e non voglio dare cifre precise. Quello che posso dire è che questa battaglia finirà con la vittoria. Che Dio ci aiuti.

Golda

Siamo nell’ottobre del 1973. Israele si prepara a celebrare lo Yom Kippur, la festa religiosa più importante dell’anno. Ma mentre il paese si ferma per il digiuno e la preghiera, Egitto e Siria lanciano un’offensiva militare congiunta, cogliendo completamente di sorpresa lo stato ebraico. È l’inizio della guerra dello Yom Kippur.

Golda Meir, prima (e unica) donna a ricoprire la carica di Primo Ministro in Israele, si trova al centro di una crisi militare, politica e personale. Gravemente malata, sottoposta in segreto a cure per un tumore, si rifugia in un bunker sotterraneo insieme ai suoi generali. Ma la malattia che la logora è solo una delle tante. C'è la pressione internazionale. C'è il sospetto, sempre più fondato, che l’intelligence abbia fallito. E c’è il timore costante di prendere la decisione sbagliata, quella che potrebbe far crollare tutto.

Il film si svolge nel giro di pochi giorni, ma è come se il tempo fosse congelato. Ogni scena è una stanza. Ogni stanza è una scelta. E ogni scelta ha il peso della Storia.

Golda ascolta, osserva, interroga. Passa gran parte del tempo seduta, o ferma, con una sigaretta in mano e lo sguardo perso nel vuoto. Ma non è passività: è concentrazione. È strategia. È consapevolezza.

Le vere battaglie sono tra lei e i suoi generali, alcuni pronti a suggerire soluzioni drastiche, altri chiusi nella convinzione di sapere meglio. Lei è sola. Eppure, è lì che si decide tutto. Fuori campo, intanto, si sentono le registrazioni reali dei combattimenti. Liev Schreiber nei panni di Henry Kissinger diventa la voce dell’America, ma anche un alleato ambiguo. Il loro dialogo a distanza è fatto di sarcasmo, diplomazia e calcoli a freddo.

E poi c’è Lou Kadar, interpretata da Camille Cottin. Non parla molto. Ma è sempre lì. Accende le sigarette a Golda, la guarda, la accompagna. Non è solo un’assistente: è un'ombra gentile. Un’umanità che resta.

"Golda" è soprattutto un film sul peso del comando. Golda Meir non viene celebrata, né messa sotto accusa. Viene mostrata così com’è: fragile, stanca, ma determinata. Capace di compassione, ma anche di freddezza. Il senso di colpa non è urlato, ma lo si legge nella postura, nei silenzi, nelle notti insonni.

Le accuse contro di lei – di non aver agito in tempo, di aver ignorato i segnali – sono parte della narrazione. Ma il film suggerisce una verità più scomoda: il potere è sempre parziale, sempre incompleto. E in guerra, anche la decisione “giusta” può sembrare un crimine.

Analisi Monologo

"I carrarmati nemici hanno penetrato le nostre linee e occupato diversi avamposti."

L’apertura è brutale e diretta. Non c’è spazio per l’ambiguità. Dayan nomina il disastro, lo mette sul tavolo, senza giri di parole. È un linguaggio che serve sia a informare, sia a prevenire la rabbia pubblica per un eventuale insabbiamento. E in un contesto in cui la percezione è tutto, è una mossa quasi politica: dirlo subito, prima che lo scoprano gli altri.

"Abbiamo sofferto perdite in vite umane e in territorio. Non possiamo negarlo."

Qui Dayan agisce su due livelli: quello emotivo e quello razionale. Cita le vite perse e il territorio ceduto, accostando la perdita umana e quella geopolitica. Ma soprattutto aggiunge: “Non possiamo negarlo”. È la frase chiave.
Perché? Perché segnala che fino a quel momento la strategia della comunicazione ufficiale è stata la minimizzazione. Ora, invece, si cambia registro. È il momento della realtà. Anche se fa male.

"Questo è più o meno quanto ci aspettavamo dal primo giorno di battaglia."

Un tentativo di reintegrare il controllo. Dopo aver ammesso il colpo subito, Dayan cerca di ricompattare il discorso: non siamo stati presi alla sprovvista – era tutto calcolato. È una mossa retorica, quasi difensiva, che serve a contenere il danno d’immagine. Ma suona anche come un autoinganno. Perché, nel contesto della guerra, Israele era chiaramente stato colto di sorpresa.

"Non posso e non voglio dare cifre precise."

Qui la tensione cresce. Il rifiuto di comunicare numeri sembra prudente, ma lascia uno strascico di sospetto. Non sapere quanto si è perso equivale a non sapere se si può ancora vincere. La frase è anche un’ammissione di vulnerabilità: Dayan sta dicendo implicitamente che i dati fanno paura.

"Quello che posso dire è che questa battaglia finirà con la vittoria."

Il tono cambia. È l’unico momento in cui il discorso prova a farsi motivazionale. Ma lo fa in modo secco, privo di retorica. Non è un discorso di esaltazione militare: è un tentativo di rassicurare, quasi di suggerire la vittoria più che proclamarla. E in questo c’è tutta la distanza tra ciò che si vuole credere e ciò che si teme.

"Che Dio ci aiuti."

Chiusura disarmante. In una comunicazione ufficiale, questa frase suona come una resa simbolica: la razionalità militare si ferma, subentra la speranza religiosa. È anche una confessione implicita: la situazione è così critica che nemmeno la leadership sa come uscirne.

Conclusione

Il monologo di Dayan, nel film Golda, è una dichiarazione pubblica che assomiglia a un cedimento privato. Una voce autorevole che si incrina proprio nel tentativo di mantenere il controllo. Quello che colpisce non è tanto cosa dice, ma come lo dice: con una gravità controllata, con pause misurate, con frasi che sembrano più rivolte a sé stesso che al pubblico. È un momento in cui la maschera del potere si sposta appena, e si intravede l’uomo sotto l’uniforme. In un film che parla di assedio interiore prima ancora che militare, questo breve monologo è una crepa. E attraverso quella crepa entra la verità: la guerra non si vince con i proclami, ma con il peso insopportabile delle decisioni non dette.

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