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~ LA REDAZIONE DI RC
Il film La città proibita, diretto da Gabriele Mainetti, si muove tra il noir urbano, il melodramma familiare e l'action con elementi orientali, costruendo una trama stratificata che parte da una ferita sociale — la politica del figlio unico in Cina — e arriva a scavare in un tessuto culturale pieno di fratture: emigrazione, desiderio di riscatto, radici tagliate, ma anche identità e sopravvivenza.
Tutto inizia nel 1995, in una Cina ancora pienamente imbrigliata nella politica del figlio unico. Una famiglia sceglie di crescere segretamente due figlie, Yun e Mei, come se l’amore familiare potesse bastare a proteggere ciò che la legge proibisce. In realtà, questa scelta le condanna entrambe a una vita in fuga: Yun, la sorella “ufficiale”, cerca fortuna in Italia per riscattare la condizione clandestina di Mei, rimasta in patria. Ma quella promessa di redenzione si spezza.
Vent'anni dopo, Mei arriva a Roma, nella Chinatown dell'Esquilino, e il film cambia passo. Entra nel territorio ibrido della metropoli, dove tutto è mescolato: cucine, lingue, traffici e dolori. Il ristorante "Città proibita" non è solo un locale, ma un simbolo — luogo di sfruttamento, ma anche centro di potere opaco. Qui, tra piatti fumanti e stanze nascoste, si nasconde il passato di Yun e forse la sua fine.
Mei inizia una sorta di discesa agli inferi: combatte, interroga, pedina. Il film adotta qui un tono più da revenge movie, con coreografie marziali che non sono semplici sfoggi tecnici, ma il linguaggio con cui Mei riesce a comunicare in un mondo che non ascolta. Nel frattempo, entra in contatto con la famiglia di Alfredo, un uomo italiano che si era innamorato di Yun e che, insieme a lei, aveva cercato una via di fuga da quel sottobosco criminale.
La trama si infittisce attorno alla figura di Alfredo, che non è più presente, ma aleggia su tutto: è l’anello mancante tra le due sorelle, e anche tra due mondi — quello italiano e quello cinese, entrambi incapaci di integrarsi davvero. Alfredo voleva vendere la sua trattoria per comprare la libertà di Yun, ma questo gesto scatena la tragedia: Annibale, suo vecchio amico, lo uccide per “difendere” l’identità italiana del quartiere. Un gesto quasi ideologico, ma cieco e autodistruttivo.
Il film qui lavora bene sulle ambiguità. Annibale non è il classico villain: è un piccolo boss di quartiere, legato al passato e incapace di accettare il cambiamento. Vuole salvare quello che ha — la trattoria, Lorena, un’illusione di controllo — e finisce per distruggere tutto. Il personaggio è scritto con una tristezza di fondo, ed è forse uno dei più riusciti del film.
In parallelo, cresce il rapporto tra Mei e Marcello, il figlio di Alfredo, che inizia come ostile e poi evolve in una complicità fragile ma sincera. I due sono speculari: entrambi orfani, entrambi sospesi tra appartenenza e spaesamento. Le scene tra loro — girate per una Roma notturna, periferica, lontana dalle cartoline — sono il respiro emotivo del film. Non è solo una storia d’amore, è un legame che restituisce a entrambi la possibilità di essere più che spettatori della violenza altrui.
Il climax arriva con la rivelazione della verità e la morte annunciata di Wang, il gangster cinese. Ma il vero confronto è tra Mei e Annibale. Lei vuole giustizia, lui è un uomo finito che non sa più distinguere le persone dalle proprietà. Quando si suicida, non lo fa per pentimento, ma per impotenza: capisce che il mondo gli è scivolato dalle mani, e che il suo tentativo di difendere un’identità si è trasformato in un atto di annientamento.
Il finale del film è una quiete dopo la tempesta: Lorena prende in mano la trattoria, i cinesi non vengono cacciati, ma nemmeno celebrati. La città resta un corpo complesso, lacerato ma non spento. Mei e Marcello, infine, scelgono la Cina: è un gesto poetico e politico insieme. Lei torna nel paese che l’ha negata, lui sceglie di rinascere altrove. Il passato non è cancellato, ma rielaborato.
Marcello: Enrico Borello
Annibale: Marco Giallini
Marcello: Annibale!
Annibale: Vattene Marcè!
Marcello: Non scappi da sta cosa, ao!
Annibale: Vattene!
Marcello: Come hai potuto! Per quello schifo di posto. Mi hai raccontato tutte quelle cazzate sulla tomba di mio padre, o! Dillo! Sei stato tu. L’hai ammazzato tu il mio migliore amico. Dillo.
Annibale: Il mio migliore amico…
Marcello: Dillo!
Annibale: Mi stava abbandonando. Se ne stava andando tuo padre. Si stava vendendo la cosa più bella, più preziosa che avete. Il nostro ristorante.
Marcello: Ma quale nostro???
Annibale: Quelle merde…
Marcello: o preferivo mio padre vivo! Io preferivo mio padre vivo, lo capisci?
Annibale: Perché sei un cazzo di coglione, perché sei un coglione, come lui. Ecco perché.
Marcello: Il coglione sei tu Annibale. E guardati, fai pena.
Annibale: Attento a come parli, Marcello.
Marcello: Ah si.
Annibale: Attento a come cazzo parli.
Marcello: Sei un morto di fame. Peggio di quelli che sfrutti. Sei un dinosauro, Annibale. Sei l’ultimo dei dinosauri rimasti, e sei un assassino del cazzo.
Annibale: “Assassino”? Marcè, io l’ho fatto per te.
Marcello: L’hai fatto per me?
Annibale: Si. L’ho fatto per noi.
Marcello: No. Tu l’hai fatto perché sei solo come un cane, e l’unico posto in cui puoi stare era quello. E l’unico posto in cui potevi stare era quello. E gli unici che l’hanno accolto eravamo noi. E tu hai ammazzato il tuo migliore amico. Ti voleva bene. Con tutte le schifezze che fai. Io ti ho voluto bene con tutte le schifezze che fa. Lei ti ha voluto bene con tutte le schifezze che fai. Gli abbiamo voluto bene come si vuole bene a un povero disgraziato Annibale, guardami.
Annibale: Basta.
Marcello: Mi fai pena, sei morto e non lo sai.
Annibale: Basta…
Marcello: Mi fai schifo.
Annibale: Vaffanculo, basta. (Tira fuori una pistola) Basta. Basta così.
Marcello: Vuoi ammazzare pure a me? E dai, ammazzame. Perché io non te darò pace. Dai, pijame bene, e metteme accanto a mi padre.
Questo dialogo tra Marcello (Enrico Borello) e Annibale (Marco Giallini) è uno dei momenti emotivamente più densi de La città proibita. Siamo davanti a un confronto che scava nel rimosso, che mette a nudo due uomini legati da affetti, tradimenti e una rabbia che non ha più vie d’uscita. È teatro puro dentro una scena da gangster movie, dove la tragedia classica si consuma tra insulti, dolore e parole che fanno molto più male delle pistole.
“Vattene, Marcè!” / “Non scappi da sta cosa, ao!”
Si apre come un duello verbale da western urbano: l’uno tenta di fuggire, l’altro lo inchioda. La frase "Non scappi da sta cosa" segna già l’orizzonte del confronto: non è solo una lite, è un giudizio. È l’arrivo al punto di non ritorno. “Per quello schifo di posto”Il ristorante, che nella narrazione è quasi un personaggio, viene finalmente nominato per quello che è diventato: non più casa, ma simbolo del possesso, dell’ossessione, del potere che corrompe. Annibale non lo protegge per amore, ma per paura del vuoto.
“Io preferivo mio padre vivo”
Questa frase è un cazzotto. Marcello spezza la logica del “sacrificio per la causa”, smaschera la retorica del “l’ho fatto per il bene di tutti”. La vita umana — quella del padre — è posta al centro. Ed è qui che Annibale cade, scoprendosi non un protettore, ma un distruttore.
La battuta “Perché sei un coglione, come lui” è una pugnalata rivolta in realtà a se stesso. Annibale non riesce a elaborare il tradimento (vero o percepito) di Alfredo, e scarica tutto sull’unico affetto che gli è rimasto. E quando Marcello lo definisce “un dinosauro”, gli dà il colpo di grazia: lo chiama reliquia, fossile di un mondo che non esiste più.
"Sei un morto di fame. Peggio di quelli che sfrutti. Sei un dinosauro, Annibale. Sei l’ultimo dei dinosauri rimasti, e sei un assassino del cazzo."
C'è dentro un’intera dichiarazione politica e morale: Annibale si è aggrappato a un’idea tossica di famiglia, di quartiere, di italianità, e per difenderla ha fatto terra bruciata.
Marcello in questa scena diventa qualcosa di diverso da un figlio o da una vittima: è la coscienza. Quando dice “Ti abbiamo voluto bene come si vuole bene a un povero disgraziato”, spezza qualsiasi possibilità di redenzione per Annibale. È un giudizio etico, ma anche affettivo: l’ha amato nonostante, e proprio per questo si sente tradito più di chiunque altro. "Tu l’hai fatto perché sei solo come un cane, e l’unico posto in cui puoi stare era quello." Questa frase è il cuore della scena. Svela la motivazione di fondo: la solitudine di Annibale, che ha scambiato il controllo per affetto e il possesso per casa.
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