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“Ti avvolgo con tutta la dolcezza del mondo”.
Una frase.
Basta una frase per rendere “epico un film”,
Ne abbiamo esempi infiniti nel cinema.
“Domani è un altro giorno”
“Dici a me”
“Sono andato a letto presto”.
L’elenco è infinito.
“Ti avvolgo con tutta la dolcezza del mondo” è la frase che Nawal Marwan, la protagonista di La donna che canta, scrive al proprio figlio-padre-torturatore.
E’ la frase che trasforma l’odio in amore.
La frase che rende universale un dolore che altrimenti sembrerebbe confinato ad un area geografica specifica e ad una vicenda quasi inverosimile.
Nawal Marwan è cristiana.
Diventa madre, giovane ragazza madre nel Libano degli anni ’70.
Essere madre senza essere sposata, in quegli anni, in quel contesto, significava disonorare la famiglia.
E il figlio di Nawal Marwan viene dato in adozione diventa Nihad di maggio.
Ma Nihad di maggio sarà anche il torturatore di Nawal quando la stessa viene arrestata ed imprigionata per quindici lunghi anni in una prigione del sud del paese.
I suoi carcerieri fanno di tutto per piegarla.
Ma lei non si piega, continua a cantare.
Cantare mentre attorno a lei si consumano violenze, mentre attorno a lei tutto crolla.
Nawal canta perché il canto la libera.
La porta via dal posto orribile dove si trova costretta a vivere.
Ed allora i suoi carcerieri decidono di rilasciarla ma prima la fanno stuprare ripetutamente da Abu Tarek, ossia Nihad di maggio.
Solo che Nihad di maggio è il figlio di Narwal.
E Narwal lo riconosce.
E Narwal incredibilmente si può pensare decide che vuole restituire a quel figlio l’amore che non gli ha potuto trasmettere come madre.
Narwan decide di rimanere incinta e decide che i due figli avuti da suo figlio dovranno, un giorno, sapere la verità.
Quel giorno coincide con la morte della donna.
Ed è simbolico, evocativo ed emblematico che la morte generi amore.
Che la morte sia simbolo di rinascita.
Non per niente Narwal è cattolica.
Alla morte segue la Resurrezione in Cristo Nostro Signore.
Avevo visto tanti anni fa questo film e ieri sera l’ho rivisto.
L’ho rivisto perché volevo capire se è davvero così facile interpretare ruoli drammatici come taluni nella community sostengono.
Sapete che risposta vi do?
E’ vero.
Incarnare un personaggio drammatico è semplice.
Richiami alla mente una o più delle sofferenze che hai vissuto in vita, ti ci immergi dentro, condisci il tutto magari con un pianto al momento giusto e voilà il pranzo anzi il film è servito.
Il problema vero sta nella difficoltà di uscire dalla “sofferenza”, dal “dramma” che hai evocato.
Le emozioni forti non sono Baci Perugina, le scarti, leggi il bigliettino, ne assapori le nocciole e poi torni a parlare dei massimi sistemi.
No, le emozioni forti – quelle che rendono La donna che canta un film epico – scavano dentro di te, ti distruggono e ti ricostruiscono diverso.
E questo processo si rinnova ogni volta che le richiami alla memoria.
Sublimare l’odio in amore poi è tra tutte le emozioni quella più difficile da incarnare e dalla quale uscire.
Non puoi dire, non puoi esprimere quasi nulla a livello corporeo.
Il senso della tua interpretazione si affida a piccolissimi movimenti facciali, ad impercettibili variazioni nell’intensità dello sguardo.
E per uscirne, ragazzi, ve lo dice uno che vive da almeno un anno in questo stato, wow ne devi percorrere di strada.
Devi affrontare i tuoi demoni, sconfiggerli e poi ripartire.
E devi muoverti rapidamente perché altrimenti rischi di rimanere intrappolato o nell’odio o nella sublimazione.
Che neppure va bene in quanto ti conduce a perdere il contatto con la realtà.
E nessuno di noi, attori od individui comuni, può permettersi di perderlo il contatto con la realtà.
Narwal Marwan, in effetti, cade in questo errore.
Attraverso la sublimazione riesce a perdonare il proprio figlio-padre-torturatore ma
contemporaneamente rovina l’infanzia e l’adolescenza dei propri figli.
Figli, Jean e Simon, che arrivano a perdonare solo attraverso un loro percorso di rifiuto, scoperta ed accettazione.
Un percorso non semplice perché anche loro devono riuscire a sublimare l’odio o meglio la disaffezione (soprattutto Simon) che provano nei confronti della madre in amore.
E anche qui devono agire senza mai fuggire dalla realtà.
Realtà che può essere drammatica (1+1 fa 2, vero? 1+1 può fare 1) e può condurre alla necessità di altri ulteriori ed ancor più complessi processi di consapevolezza e liberazione.
Si perché il vero messaggio che ci trasmette La donna che canta, alla fine, è che l’amore ti libera.
L’amore rappresenta l’unico sentimento degno di considerazione in un mondo dominato dalla guerra, dalla rappresaglia, dall’ignoranza, dall’arroganza, dall’aggressività.
Cerchiamo di amarci amici miei.
Cerchiamo.
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