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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo dell’avvocato Giorgio Levi, interpretato da Antonio Flores, è uno dei momenti chiave di La ragazza nella nebbia. Non è lungo, non è urlato, non è costruito per l’effetto teatrale. Eppure ha un peso specifico altissimo all’interno della narrazione. È un discorso che sposta il baricentro del film. Il professor Martini – principale sospettato della scomparsa di Anna Lou – è seduto di fronte al suo avvocato. Potrebbe sembrare una scena legale, una delle tante. Ma qui il focus si sposta: non si parla più del caso specifico, ma del funzionamento dell’intero sistema.
MINUTAGGIO: 1:07:28-1:10:00
RUOLO: Avvocato Levi
ATTORE: Antonio Gerardi
DOVE: Netflix
Perché lui non ne ha bisogno. A lui basta imboccare i media e l’opinione pubblica con due pettegolezzi per guadagnare tempo, così può attendere con calma che esca qualcosa di concreto contro di lei. Professore, mi faccia un favore, anzi, lo faccia a se stesso. Dimentichi di essere innocente. Vi ricordate del caso del mutilatore? Per anni la polizia ha dato la caccia ad un attentatore seriale. Nascondeva piccoli ordigni prodotti al supermercato: un tubetto di maionese, una scatola di cereali… li riempiva di esplosivi e poi li rimetteva negli scaffali. Purtroppo le esplosioni hanno ferito diversi clienti mutilandoli, ma senza mai uccidere nessuno. Prima che ci scappasse il morto Vogler riesce a scovare un innocuo contabile con la passione per l’elettronica e il modellismo: il Signor Romeo. Anche nel suo caso, nessuna prova ma tantissimi indizi. Vogler è riuscito a mettere su uno spettacolo incredibile per le televisioni. In qualche modo è riuscito a convincere un magistrato e incriminarlo: morale della favola, il signor Romeo è stato assolto con formula piena. Il signor Romeo ha passato quattro anni della vita in carcere nell’attesa che terminasse il processo a suo carico. Dopo ha avuto un lauto risarcimento, è vero, un milione, per l’esattezza. Nel frattempo però ha avuto un ictus, ha perso la famiglia, gli amici, la moglie… ogni cosa della sua vita precedente è stata completamente distrutta. Cancellata.
“La ragazza nella nebbia” è un thriller psicologico italiano del 2017 diretto da Donato Carrisi, al suo esordio alla regia, tratto dal suo omonimo romanzo. Già da questo si capisce una cosa importante: il film è un’opera molto controllata, quasi chirurgica nella costruzione narrativa, perché lo stesso autore che l’ha scritto è anche quello che l’ha diretto. Non capita spesso. E in questo caso si sente. La vicenda è ambientata ad Avechot, un paesino immaginario e sperduto tra le Alpi. La montagna ha un ruolo importante. Non tanto per l’ambiente in sé, ma per l’atmosfera: nebbia, silenzi, isolamento. È un luogo fuori dal tempo, dove tutto è apparentemente immobile, ma sotto la superficie ribolle qualcosa. È un luogo che sembra nascondere segreti da generazioni.
La trama prende il via con un evento che sembra semplice e quotidiano, ma che in contesti così piccoli ha l’effetto di una bomba: la scomparsa di una ragazza di 16 anni, Anna Lou, dai capelli rossi, appartenente a una comunità religiosa. Una di quelle ragazze che fanno catechismo, portano i biscotti alle vecchiette, spariscono senza lasciare traccia.
Entra in scena l’ispettore Vogel, interpretato da Toni Servillo. Ed è qui che il film cambia direzione. Non è più solo un’indagine su una scomparsa. Perché Vogel non è un poliziotto “classico”. È un personaggio che vive di mediaticità. Non cerca la verità: cerca un colpevole giusto da mostrare in TV. Il suo mestiere è costruire casi che piacciano al pubblico.
La sua ossessione è il consenso mediatico, non la giustizia. E questo porta avanti uno dei veri temi del film: quanto conta l’apparenza rispetto alla verità? Quanto il crimine diventa spettacolo, intrattenimento? Quanta parte dell’indagine è pura messinscena? Il “mostro” da sbattere in prima pagina viene individuato in uno degli insospettabili: il professor Martini, insegnante del liceo, interpretato da Alessio Boni. Uomo colto, ben visto dalla comunità, apparentemente irreprensibile. Ma anche solitario, con un passato che non è limpidissimo, e una faccia che “funziona bene in TV” quando lo si dipinge come il colpevole. Da qui inizia una spirale narrativa in cui il dubbio è al centro di tutto. Non tanto cosa è successo ad Anna Lou, ma chi decide cosa è successo ad Anna Lou? E la domanda si fa più ambigua quando, man mano che il film avanza, ci rendiamo conto che nessuno è affidabile.
“Dimentichi di essere innocente.” Bastano queste sei parole per capovolgere un intero impianto etico. L’innocenza, nel contesto mediatico-giudiziario costruito da Vogel, non protegge. Anzi, può diventare un ostacolo. Perché chi è innocente si aspetta giustizia, mentre il sistema, così come viene descritto da Levi, non cerca giustizia: cerca una storia da vendere.
Il racconto del “caso del mutilatore” serve come esempio plastico di questa logica. Un uomo, il signor Romeo, viene preso di mira da Vogel perché risponde al profilo giusto per il pubblico.
E qui Levi ci mostra esattamente come funziona il potere mediatico: “Nessuna prova, ma tantissimi indizi” – formula perfetta per costruire un colpevole credibile in TV. “Vogel è riuscito a mettere su uno spettacolo incredibile per le televisioni.” – Il crimine come intrattenimento. Il processo come show.
Risultato: Romeo viene distrutto, non perché colpevole, ma perché è “funzionale”. La parte finale è quella più devastante. Romeo è stato assolto. Ha ottenuto un milione di euro di risarcimento.
Ma: “Ha avuto un ictus, ha perso la famiglia, gli amici, la moglie… ogni cosa della sua vita precedente è stata completamente distrutta. Cancellata.”
Qui Levi toglie ogni residuo di fiducia nel sistema. Il processo può anche finire con un’assoluzione, ma il danno umano è irreversibile. L’innocenza non basta a salvarti. La verità, ammesso che arrivi, arriva troppo tardi.
Questo monologo è una denuncia sociale travestita da consulenza legale. Levi parla a Martini, ma Carrisi parla allo spettatore. Ci sta dicendo che nel mondo in cui ci muoviamo, la percezione ha sostituito la verità, e i processi – reali o mediatici – non sono più luoghi di chiarimento, ma palcoscenici per narrazioni preconfezionate.
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