La ragazza nella nebbia: analisi del monologo della madre di Anna Lou

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

All’interno di La ragazza nella nebbia, c’è un momento in cui il thriller si ferma, la tensione si diluisce e si apre uno spiraglio di dolore autentico. È il momento in cui la madre di Anna Lou, davanti alle telecamere, si rivolge direttamente al pubblico — quello presente nel film e, indirettamente, anche a noi spettatori. Questo monologo è una dichiarazione pubblica, ma anche un frammento di intimità esposta: è parte della macchina mediatica orchestrata da Vogel, ma è anche un grido reale, sincero, di una madre che si aggrappa a qualunque possibilità pur di riabbracciare sua figlia.

Anna Lou, preghiamo per te

MINUTAGGIO: 16:00-17:38
RUOLO: Maria
ATTRICE:
Daniela Piazza
DOVE: Netflix

Anna Lou è alta un metro e sessanta. Ha lunghi capelli rossi. Al momento della scomparsa indossava un montgomery chiaro, una sciarpa verde, scarpe e tuta da ginnastica. Portava con se uno zainetto rosa. Nostra figlia è una ragazza gentile. Chi la conosce sa che ha un gran cuore. Ad Anna Lou piacciono i gatti, e ha fiducia nelle persone. Per questo oggi ci rivolgiamo anche a quelli che non l’hanno conosciuta, in questi suoi primi sedici anni di vita. Se l’avete vista, o sapete dove si trova… Aiutateci a riportarla a casa. Anna Lou, mamma e papà e i tuoi fratelli ti vogliono bene. Dovunque tu sia spero che ti giunga la nostra voce e il tuo amore, e quando tornerai a casa ti regaleremo il gattino che tanto hai desiderato. Te lo prometto. Il signore ti protegga, piccola mia. Grazie. 

La ragazza nella nebbia

“La ragazza nella nebbia” (2017), esordio alla regia di Donato Carrisi (autore del romanzo omonimo da cui è tratto il film), è un thriller italiano che gioca a scomporre e manipolare il classico meccanismo del giallo, mettendo al centro non tanto la risoluzione del caso, quanto la costruzione della verità agli occhi dell’opinione pubblica. È un film che parla di crimini, ma soprattutto di chi racconta quei crimini.

Il cuore narrativo del film si muove intorno a tre personaggi principali: l’ispettore Vogel, il professor Martini, e il dottor Flores. Tutto comincia in un presente fumoso – letteralmente immerso nella nebbia – in cui un uomo con i vestiti insanguinati ha un incidente d’auto. È Vogel, e da qui parte il lungo flashback che compone l'intera narrazione.

Anna Lou è il motore del mistero: adolescente rossa, di famiglia profondamente religiosa, sparisce nel nulla pochi giorni prima di Natale. Il paese di Avechot, immaginario ma riconoscibile nella sua chiusura alpina e provinciale, diventa subito il teatro ideale per un'indagine dai contorni oscuri e claustrofobici. La sua figura, delicata e apparentemente impeccabile, incarna l’innocenza che il cinema giallo ha spesso bisogno di sacrificare per accendere la miccia del sospetto.

Vogel non è un eroe: è un uomo in cerca di riscatto mediatico. La sua etica investigativa è corrotta da un istinto quasi istintivo alla spettacolarizzazione. Non cerca la verità, cerca un colpevole che funzioni davanti alle telecamere. E quando individua Loris Martini, l’insegnante con un passato instabile e un presente fragile, lo trasforma in un mostro in diretta TV. Vogel non indaga, orchestra.

Strumentalizza un adolescente disturbato, manipola le prove (arriva a insanguinare lo zaino di Anna Lou con il sangue del sospettato), sfrutta la stampa per alimentare un racconto che non si basa su certezze, ma su suggestioni. Per lui l’informazione non è un diritto, ma un’arma. Il risultato? Martini in prigione, la folla soddisfatta, i media in visibilio. Caso chiuso. Solo che non lo è affatto.

Loris Martini è una figura ambigua. Prima vittima, poi (falsamente) riabilitato, alla fine smascherato come l’assassino. La genialità della sceneggiatura sta proprio qui: nel trasformare la presunta vittima dell’abuso mediatico in un carnefice che ha volontariamente orchestrato la propria incriminazione.

Martini ha sfruttato la narrazione di Vogel per farsi incastrare con l’intento di essere in seguito assolto e trarne gloria personale. Ha pianificato tutto, dal trekking senza alibi alla ferita spiegabile, fino all’atteggiamento passivo nei confronti delle accuse.

È un personaggio mosso dalla disperazione, ma anche dal calcolo. Non uccide per impulso, ma per strategia. Il suo gesto è una richiesta d’aiuto mascherata da crimine, un tentativo estremo di restare a galla nella crisi della sua identità e della sua mascolinità. Dopo il colpo di scena sulla vera colpevolezza di Martini, il film sembra chiudersi. Ma Carrisi aggiunge un ultimo, beffardo tassello.

Durante una seduta con lo psichiatra Flores (che è stato nostro "narratore silenzioso" per tutto il film), Vogel ammette di aver ucciso Martini. E qui torniamo al presente. Ma la vera stoccata è ciò che scopriamo su Flores stesso: l’uomo è l’originale “Uomo nella Nebbia”, il serial killer che trent’anni prima aveva ucciso ragazze dai capelli rossi, come Anna Lou. Ha smesso di colpire dopo un infarto, ma conserva le sue vittime attraverso ciocche di capelli, tenute come trofei. È un colpo di scena finale che non cambia il destino dei personaggi, ma cambia completamente il modo in cui guardiamo l’intero racconto. Ci fa capire che il male, in questo film, ha molte facce. E spesso, la più pericolosa è quella che resta in silenzio.

Analisi Monologo

"Anna Lou è alta un metro e sessanta. Ha lunghi capelli rossi. Al momento della scomparsa indossava un montgomery chiaro, una sciarpa verde, scarpe e tuta da ginnastica. Portava con sé uno zainetto rosa."

La prima parte del discorso è una descrizione tecnica e dettagliata: altezza, abbigliamento, accessori. È la parte che rientra nel protocollo tipico di un appello pubblico per una persona scomparsa. Serve a renderla riconoscibile, ma anche a farla esistere nel racconto: ogni dettaglio visivo aiuta il pubblico a immaginarla, a visualizzarla, a umanizzarla. Non è una "ragazza scomparsa" generica, è Anna Lou. Quella con lo zainetto rosa e la sciarpa verde.

“Nostra figlia è una ragazza gentile. Chi la conosce sa che ha un gran cuore. Ad Anna Lou piacciono i gatti, e ha fiducia nelle persone."

Qui il registro cambia. La madre passa dal dato oggettivo alla caratterizzazione affettiva. Gentilezza, amore per i gatti, fiducia negli altri: elementi semplici, ma fortemente evocativi. Rivelano il mondo emotivo di Anna Lou e allo stesso tempo giustificano (narrativamente) la sua vulnerabilità. È il modo in cui la madre dice: non era ingenua, era buona. Non meritava di sparire.

C’è anche una dinamica interessante: il monologo è rivolto "a chi non la conosce", ma allo stesso tempo costruisce un’immagine che tutti possono sentire vicina. È un appello che vuole creare empatia, ma nel farlo disegna un ritratto ideale, quasi simbolico: Anna Lou diventa la figlia di tutti.

"Per questo oggi ci rivolgiamo anche a quelli che non l’hanno conosciuta, in questi suoi primi sedici anni di vita. Se l’avete vista, o sapete dove si trova… Aiutateci a riportarla a casa."

Questa parte è il cuore pragmatico dell’appello. Ma è anche, a livello cinematografico, il momento in cui il monologo si allinea perfettamente con le intenzioni di Vogel: parlare alla nazione, sollevare una reazione emotiva collettiva, dare un volto — e una storia — a una sparizione che, senza la macchina narrativa, sarebbe rimasta nell’anonimato. C’è qualcosa di profondamente inquietante nella sincerità della madre che viene usata dal sistema mediatico. La sua autenticità diventa strumento.

"Anna Lou, mamma e papà e i tuoi fratelli ti vogliono bene. Dovunque tu sia spero che ti giunga la nostra voce e il tuo amore, e quando tornerai a casa ti regaleremo il gattino che tanto hai desiderato. Te lo prometto. Il Signore ti protegga, piccola mia. Grazie."

Nel finale il monologo si trasforma in preghiera. Non è più rivolto agli spettatori, ma direttamente ad Anna Lou. Questo passaggio è delicatissimo: rompe il meccanismo della comunicazione pubblica e torna alla dimensione familiare, intima. Il gattino promesso è una promessa fatta a una figlia, un gesto di tenerezza che spezza la freddezza della cronaca. Ma proprio questa tenerezza — messa in scena sotto gli occhi delle telecamere — diventa spettacolo, involontario ma potentissimo.

Conclusione

Il monologo della madre di Anna Lou è uno dei momenti più significativi de La ragazza nella nebbia non per quello che dice, ma per come lo dice e quando lo dice. È un momento di vulnerabilità autentica all’interno di una cornice manipolata. È cinema che riflette su come il dolore venga raccontato e sfruttato. È una performance dentro un’altra performance.

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