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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo pronunciato da Toni Servillo, nei panni dell’ispettore Vogel, arriva nelle battute finali di La ragazza nella nebbia ed è una delle confessioni più ambigue del film. È un momento in cui i confini tra intuito, ossessione e delirio di onnipotenza diventano sottilissimi. A questo punto del film, la verità è diventata un labirinto. Le accuse contro il professor Martini sono cadute. Il mistero sulla sorte di Anna Lou resta. E l’ispettore Vogel, che da sempre vive per controllare la narrazione del crimine, si ritrova ora a parlare a voce alta, come se volesse ricostruire il meccanismo che gli è sfuggito di mano.
MINUTAGGIO: 1:58:00-2:00:00
RUOLO: Ispettore Vogel
ATTORE: Toni Servillo
DOVE: Netflix
L’SMS inviato all’allieva per alimentare il sospetto, il sangue lasciato deliberatamente sul tavolo del ristorante perché me ne servissi… In fondo… credo che lui non abbia scelto Anna Lou. No. Lui ha scelto me. E la cosa un pò mi lusinga. Ma tutto era studiato perché alla fine la colpa ricadesse sull’uomo della nebbia, non so nemmeno se sia mai esistito, se sia soltanto il parto della mente malata di una vecchia cronista pazza. Il meccanismo ruotava intorno a un’idea semplice: nessuno avrebbe dovuto mai più ritrovare il corpo di Anna Lou. Ma più. Era tutto lì l’inganno. Senza cadavere non c’erano prove, per questo se l’è cavata. Un omicida compie normalmente venti errori. Ma si rende conto soltanto di un terzo di essi. La maggior parte è frutto di imprudenza, o imperizia. Ma c’è un tipo di errore che possiamo considerare volontario. E’ una specie di firma. Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità. Ma che gusto c’è ad essere il diavolo, se non puoi farlo sapere a nessuno?
“La ragazza nella nebbia” è un thriller psicologico italiano del 2017 diretto da Donato Carrisi, al suo esordio alla regia, tratto dal suo omonimo romanzo. Già da questo si capisce una cosa importante: il film è un’opera molto controllata, quasi chirurgica nella costruzione narrativa, perché lo stesso autore che l’ha scritto è anche quello che l’ha diretto. Non capita spesso. E in questo caso si sente. La vicenda è ambientata ad Avechot, un paesino immaginario e sperduto tra le Alpi. La montagna ha un ruolo importante. Non tanto per l’ambiente in sé, ma per l’atmosfera: nebbia, silenzi, isolamento. È un luogo fuori dal tempo, dove tutto è apparentemente immobile, ma sotto la superficie ribolle qualcosa. È un luogo che sembra nascondere segreti da generazioni.
La trama prende il via con un evento che sembra semplice e quotidiano, ma che in contesti così piccoli ha l’effetto di una bomba: la scomparsa di una ragazza di 16 anni, Anna Lou, dai capelli rossi, appartenente a una comunità religiosa. Una di quelle ragazze che fanno catechismo, portano i biscotti alle vecchiette, spariscono senza lasciare traccia.
Entra in scena l’ispettore Vogel, interpretato da Toni Servillo. Ed è qui che il film cambia direzione. Non è più solo un’indagine su una scomparsa. Perché Vogel non è un poliziotto “classico”. È un personaggio che vive di mediaticità. Non cerca la verità: cerca un colpevole giusto da mostrare in TV. Il suo mestiere è costruire casi che piacciano al pubblico.
La sua ossessione è il consenso mediatico, non la giustizia. E questo porta avanti uno dei veri temi del film: quanto conta l’apparenza rispetto alla verità? Quanto il crimine diventa spettacolo, intrattenimento? Quanta parte dell’indagine è pura messinscena? Il “mostro” da sbattere in prima pagina viene individuato in uno degli insospettabili: il professor Martini, insegnante del liceo, interpretato da Alessio Boni. Uomo colto, ben visto dalla comunità, apparentemente irreprensibile. Ma anche solitario, con un passato che non è limpidissimo, e una faccia che “funziona bene in TV” quando lo si dipinge come il colpevole. Da qui inizia una spirale narrativa in cui il dubbio è al centro di tutto. Non tanto cosa è successo ad Anna Lou, ma chi decide cosa è successo ad Anna Lou? E la domanda si fa più ambigua quando, man mano che il film avanza, ci rendiamo conto che nessuno è affidabile.
“Credo che lui non abbia scelto Anna Lou. No. Lui ha scelto me.” La chiave del monologo è tutta qui. Vogel non parla più da poliziotto. Parla da protagonista del racconto. Sente che la vittima è stata scelta per attirarlo in una trappola. Una trappola intellettuale, costruita apposta per affascinarlo, per metterlo alla prova. L’indizio lasciato nel ristorante. L’SMS inviato apposta. Tutto costruito per attirare Vogel, per stimolare la sua ossessione per il caso perfetto. E lui, pur sapendolo, si lascia coinvolgere. Perché? Perché ne è sedotto. Lo dice lui stesso: “E la cosa un po’ mi lusinga.”
È una confessione narcisistica, una forma di vanità. Vogel si sente onorato di essere stato scelto. Non è più cacciatore. È preda… consenziente. Ed è in questo momento che il personaggio si spoglia completamente del ruolo istituzionale e mostra il volto dell’uomo dominato dal proprio ego. “Il meccanismo ruotava intorno a un’idea semplice: nessuno avrebbe dovuto mai più ritrovare il corpo di Anna Lou.”
L’inganno, dice Vogel, è tutto lì. Senza corpo, non c’è prova. E qui il film tocca uno dei suoi temi più forti: l’assenza come strategia narrativa. Un delitto perfetto non ha bisogno di un corpo. Ha bisogno di un pubblico che immagini il peggio. E Vogel, che è maestro nel costruire il racconto di un crimine per i media, si ritrova vittima dello stesso meccanismo. È un colpo di scena silenzioso: il re della narrazione mediatica viene sconfitto sul suo stesso terreno. “Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità. Ma che gusto c’è ad essere il diavolo, se non puoi farlo sapere a nessuno?”
Questa chiusura è una vera dichiarazione di poetica noir. Il “diavolo” – che sia l’assassino, o lo stesso Vogel – vuole essere riconosciuto. L’errore volontario, la “firma”, non è una svista: è un desiderio di riconoscimento. Non si uccide solo per uccidere. Si uccide per essere notati, per essere decifrati, per lasciare un segno. E Vogel lo sa bene, perché lui vive di questo. Vive per smascherare chi vuole essere scoperto. Ma quando si rende conto di far parte di questo gioco – quando capisce di essere dentro il teatro del crimine, e non più sopra di esso – crolla.
Questo monologo è lo specchio finale di Vogel. Non si tratta di una confessione, né di una verità risolutiva. È un flusso di consapevolezza in cui l’ispettore ammette, forse per la prima volta, di non avere mai avuto il controllo pieno della storia. La struttura stessa del discorso – piena di frasi spezzate, sospensioni, ripensamenti – è lo specchio di una mente che vacilla. Vogel, che aveva sempre guidato l’opinione pubblica, ora parla da solo, nel vuoto. E ci lascia con una verità disturbante: forse il vero mostro non è chi commette il crimine… ma chi lo trasforma in spettacolo.
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