La vita che volevamo: analisi del monologo onirico di Alice

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Alice, tratto da La vita che volevamo, è un passaggio breve ma densissimo, sospeso tra sogno e desiderio, tra visione e perdita. È una confessione silenziosa, pronunciata con una calma solo apparente, che arriva in uno dei momenti emotivamente più carichi del film. Alice parla di un sogno, ma in realtà ci sta mostrando il punto più profondo della sua frattura interiore: la maternità immaginata, vissuta solo in uno spazio onirico, lontano dalla realtà, confusa e irraggiungibile come quella bambina che le sfugge tra le dita.

Sogno tra passato e futuro

MINUTAGGIO: 0:40-2:02
RUOLO: Alice
ATTRICE:
Lavinia Wilson
DOVE: Netflix



Siamo su un’isola. C’è un temporale. Il vento ci soffia la sabbia negli occhi. Non riesco a vederla distintamente, come se non avessi metto le lenti a contatto. Un corpo piccolo, compatto, una bella pelle, più scura della mia. Come quella di mio marito. I suoi piedi toccano il suolo per un breve attimo, poi lei corre via. Mi lancia uno sguardo perplesso. Non metto a fuoco il suo viso. La riconosco da come si muove, come lui. Cerco di chiamarla, ma ho dimenticato il suo nome. Nei sogni è così: tutto cambia senza una logica. Lo accettiamo, nei sogni. Siamo impotenti e facciamo quello che si deve fare. 

La vita che volevamo

Il film si apre su Alice e Niklas, coppia affiatata e benestante, apparentemente solida, che però si trova in un momento delicatissimo. Dopo il quarto fallimento di un ciclo di fecondazione assistita, Alice è svuotata, fragile, e non solo fisicamente. La delusione non è solo clinica: è esistenziale. Il film suggerisce fin da subito che il desiderio di maternità non è semplicemente un progetto di coppia, ma una necessità profonda, quasi identitaria, almeno per Alice. E la mancata realizzazione di questo desiderio diventa la crepa attraverso cui iniziano a emergere tensioni, distanze e ferite mai del tutto rimarginate. Per fuggire da Vienna, ma soprattutto per mettere in pausa quel dolore, i due decidono di partire per la Sardegna. Il paesaggio, elegante e incontaminato, ha però un ruolo tutt’altro che consolatorio. La luce della vacanza non lenisce, ma esaspera.

La villa dove alloggiano è affiancata da un’altra, dove arriva una famiglia austriaca in apparenza serena e completa: due figli, una certa disinvoltura nei rapporti, e quell’aria di "normalità" che spesso chi soffre percepisce come una provocazione.

Il contatto con quella famiglia agisce da detonatore. Alice comincia a legarsi alla piccola Denise, una bambina di cinque anni che si affeziona a lei con la spontaneità e l’innocenza che i bambini sanno avere con chi sentono emotivamente presente. Niklas, dal canto suo, si ritrae. La dinamica che si costruisce è sbilanciata: Alice sembra trovare conforto nel ruolo materno che le viene concesso, seppur solo per qualche giorno, mentre Niklas osserva il tutto da una certa distanza, come se si rendesse conto che quella donna che ama potrebbe cambiare profondamente sotto i suoi occhi.

Il ragazzo più grande della famiglia vicina, David, ha tredici anni, è introverso, chiuso, a tratti ostile. Non è il figlio perfetto, né un modello. È anzi un adolescente problematico. Ma è comunque “un figlio”, una possibilità che Alice e Niklas non hanno e forse non avranno mai. La vicinanza con lui è ambigua: non c’è invidia, ma un misto di tristezza, frustrazione e proiezione. Quando David tenta il suicidio, la bolla vacanziera esplode del tutto. La realtà – anche quella delle famiglie apparentemente felici – si rivela molto più complessa. A quel punto, ogni parvenza di equilibrio si rompe. La Sardegna, che doveva essere pausa e tregua, diventa specchio deformante di tutto quello che manca. Alice e Niklas non riescono a condividere il dolore, non riescono più nemmeno a guardarsi senza vedere ciò che non hanno.

Eppure, proprio nel momento in cui sembra che il legame tra loro si stia definitivamente sfilacciando, succede qualcosa di meno spettacolare ma forse più reale: fanno ritorno a Vienna. E con la notizia che David è salvo, qualcosa si riattiva. È come se si aprisse una finestra, piccola ma concreta. Non ci sono soluzioni miracolose. Non c’è un figlio all’orizzonte. Ma c’è una nuova possibilità di ripensarsi, insieme o forse no, come persone che accettano di non poter avere tutto, ma che vogliono comunque provare a vivere qualcosa che abbia senso.

Analisi Monologo

"Siamo su un’isola. C’è un temporale." Il monologo si apre con un’immagine fortemente simbolica: l’isola è luogo di isolamento, di sospensione dal mondo. Non è la Sardegna vera, ma una sua trasfigurazione interiore. Il temporale, invece, è il turbamento emotivo, il caos, lo stato interiore di Alice, che non ha più punti fermi. "Il vento ci soffia la sabbia negli occhi. Non riesco a vederla distintamente..." La sabbia negli occhi è un’immagine fisica e disturbante. Impedisce di vedere, di mettere a fuoco. E qui entra il tema centrale del monologo: l’impossibilità di afferrare, di vedere chiaramente ciò che si desidera. La bambina del sogno non è nitida, come non è nitida la prospettiva della maternità. Alice parla come se avesse perso l’accesso a quella parte di sé che desiderava un futuro preciso, visibile.

"Un corpo piccolo, compatto, una bella pelle, più scura della mia. Come quella di mio marito." Il riferimento alla pelle "più scura" è un segno di riconoscimento, un tratto concreto, terreno. Alice sta immaginando la figlia che lei e Niklas avrebbero potuto avere, che non avranno. È un'immagine costruita dalla mente, ma piena di dettagli reali. È un frammento di realtà che esiste solo nella sua testa. "I suoi piedi toccano il suolo per un breve attimo, poi lei corre via." La bambina non rimane. Passa, sfugge, si dissolve. La fugacità di questa presenza è ciò che rende il sogno un piccolo lutto. È l’esperienza del desiderio che si manifesta e poi si cancella immediatamente. Come se la vita stessa – quella che Alice voleva – le mostrasse per un attimo cosa sarebbe potuto essere, solo per strapparglielo via subito dopo.

"Mi lancia uno sguardo perplesso. Non metto a fuoco il suo viso. La riconosco da come si muove, come lui."

Lo sguardo perplesso della bambina è uno specchio emotivo: la confusione, l’inadeguatezza, l’impotenza di Alice si riflettono in quel viso che non riesce nemmeno a vedere. Il corpo è riconoscibile, il movimento è familiare (come quello di Niklas), ma il volto – la vera identità – resta indefinito. Non è solo una questione ottica. È l’impossibilità di dare un volto reale a un sogno che non diventerà mai carne. "Cerco di chiamarla, ma ho dimenticato il suo nome." Alice ha immaginato sua figlia mille volte, eppure nel sogno, che dovrebbe essere uno spazio di libertà assoluta, non riesce a darle un nome. Il nome è identità, presenza, riconoscimento. Non ricordarlo è come ammettere che questa bambina non è mai esistita davvero, nemmeno dentro di lei.

"Nei sogni è così: tutto cambia senza una logica. Lo accettiamo, nei sogni. Siamo impotenti e facciamo quello che si deve fare." La chiusa del monologo è amarissima. Alice descrive il sogno come un luogo in cui la realtà si piega, si sfalda, ma anche come un luogo in cui si è costretti ad accettare le regole dell’impotenza. Il sogno diventa un riflesso della vita reale, in cui si è passivi di fronte a ciò che accade, incapaci di cambiare davvero le cose. La maternità per Alice è diventata un sogno con le stesse regole della realtà: inspiegabile, irraggiungibile, e priva di controllo.

Conclusione



Questo monologo non serve solo a rivelare l’interiorità di Alice: è una sintesi poetica del film stesso. In pochi secondi mette in scena il dolore più intimo, quello che non trova spazio nella vita quotidiana, né nelle conversazioni con Niklas. È un sogno, ma più lucido e rivelatore di qualsiasi momento da sveglia. La figlia mai nata diventa un fantasma concreto, presente ma inafferrabile. L’atto stesso di dimenticarne il nome è la dichiarazione di una resa: la consapevolezza che la vita che voleva, semplicemente, non sarà.

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