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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Alice è probabilmente il più crudo e diretto dell’intero film La vita che volevamo, ed è anche uno dei momenti in cui il film smette di trattenersi. È qui che la voce di Alice esce dal silenzio e si fa sfogo, denuncia, confessione. Alice prende finalmente parola con rabbia, esasperazione e lucidità, rompendo quella cortina di contenimento emotivo che l’ha accompagnata fino a quel punto del film. Questo monologo è un'esplosione: un flusso verbale senza filtro in cui emergono le dinamiche spesso taciute della fecondazione assistita, non dal punto di vista medico, ma da quello umano, intimo, corporeo.
MINUTAGGIO: 1:09:00-1:12:00
RUOLO: Alice
ATTRICE: Lavinia Wilson
DOVE: Netflix
Prima non devi fare sesso per quattordici giorni, e poi lo devi fare per forza in un certo giorno, ma soltanto lle 11:25, perché alle 12:00 potrebbe essere già troppo tardi. Non ti va neanche più di andare a letto con lui. A dire il vero non vuoi neanche vederlo. Ma ti sdrai comunque, perché… sotto hai più possibilità. Anche se vorresti stare sopra. E poi te lo spingi dentro. Lui non ti guarda, e non lo guardi neanche tu. E per che cosa, poi? Per niente. E alla fine questa cazzo di fecondazione in vetro. Quello che ti fanno fare questi dottori è assurdo. Ti danno dei grandi… degli enormi siringoni da fare a casa, e tuo marito te li deve sparare sul culo. E’ una situazione davvero strana. E io… io proprio non riesco a capire come si può… come si possono inventare tante cose, e nessuna di queste funziona. Nessuna. Insomma, loro… loro ti trattano come una mucca. Vogliono solo prendere i tuoi ovuli, per buttarci dentro una bacinella, e metterci dentro lo sperma. Ed è… E’ così… è così… è umiliante, ecco. A te piacerebbe essere stata concepita così? Io questo non lo voglio più. Non voglio più doverci pensare tutto il tempo. A volte aspetto solo il giorno in cui avrò i miei 46 o 47 anni, quando finalmente sarà finita. Perché fino ad allora non lo so se possiamo smettere. Non lo so. Non lo so se posso. Mi doni i tuoi ovuli, per favore?
Il film si apre su Alice e Niklas, coppia affiatata e benestante, apparentemente solida, che però si trova in un momento delicatissimo. Dopo il quarto fallimento di un ciclo di fecondazione assistita, Alice è svuotata, fragile, e non solo fisicamente. La delusione non è solo clinica: è esistenziale. Il film suggerisce fin da subito che il desiderio di maternità non è semplicemente un progetto di coppia, ma una necessità profonda, quasi identitaria, almeno per Alice. E la mancata realizzazione di questo desiderio diventa la crepa attraverso cui iniziano a emergere tensioni, distanze e ferite mai del tutto rimarginate. Per fuggire da Vienna, ma soprattutto per mettere in pausa quel dolore, i due decidono di partire per la Sardegna. Il paesaggio, elegante e incontaminato, ha però un ruolo tutt’altro che consolatorio. La luce della vacanza non lenisce, ma esaspera.
La villa dove alloggiano è affiancata da un’altra, dove arriva una famiglia austriaca in apparenza serena e completa: due figli, una certa disinvoltura nei rapporti, e quell’aria di "normalità" che spesso chi soffre percepisce come una provocazione.
Il contatto con quella famiglia agisce da detonatore. Alice comincia a legarsi alla piccola Denise, una bambina di cinque anni che si affeziona a lei con la spontaneità e l’innocenza che i bambini sanno avere con chi sentono emotivamente presente. Niklas, dal canto suo, si ritrae. La dinamica che si costruisce è sbilanciata: Alice sembra trovare conforto nel ruolo materno che le viene concesso, seppur solo per qualche giorno, mentre Niklas osserva il tutto da una certa distanza, come se si rendesse conto che quella donna che ama potrebbe cambiare profondamente sotto i suoi occhi.
Il ragazzo più grande della famiglia vicina, David, ha tredici anni, è introverso, chiuso, a tratti ostile. Non è il figlio perfetto, né un modello. È anzi un adolescente problematico. Ma è comunque “un figlio”, una possibilità che Alice e Niklas non hanno e forse non avranno mai. La vicinanza con lui è ambigua: non c’è invidia, ma un misto di tristezza, frustrazione e proiezione. Quando David tenta il suicidio, la bolla vacanziera esplode del tutto. La realtà – anche quella delle famiglie apparentemente felici – si rivela molto più complessa. A quel punto, ogni parvenza di equilibrio si rompe. La Sardegna, che doveva essere pausa e tregua, diventa specchio deformante di tutto quello che manca. Alice e Niklas non riescono a condividere il dolore, non riescono più nemmeno a guardarsi senza vedere ciò che non hanno.
Eppure, proprio nel momento in cui sembra che il legame tra loro si stia definitivamente sfilacciando, succede qualcosa di meno spettacolare ma forse più reale: fanno ritorno a Vienna. E con la notizia che David è salvo, qualcosa si riattiva. È come se si aprisse una finestra, piccola ma concreta. Non ci sono soluzioni miracolose. Non c’è un figlio all’orizzonte. Ma c’è una nuova possibilità di ripensarsi, insieme o forse no, come persone che accettano di non poter avere tutto, ma che vogliono comunque provare a vivere qualcosa che abbia senso.
"Prima non devi fare sesso per quattordici giorni, e poi lo devi fare per forza in un certo giorno, ma soltanto alle 11:25..." Si comincia da qui: la perdita di spontaneità. Alice descrive il sesso programmato come un rituale meccanico, svuotato di desiderio. Non si tratta solo di tempistiche mediche: è l’esperienza di un corpo che viene gestito a orario, un corpo che non appartiene più a chi lo vive. L’intimità diventa performance, ed è già lì che comincia lo scollamento dalla relazione. "Ti sdrai comunque, perché… sotto hai più possibilità. Anche se vorresti stare sopra." In una frase Alice racchiude la frustrazione di dover rinunciare anche alla minima espressione di volontà. Non può nemmeno decidere la posizione, perché la posizione incide sulle probabilità di concepimento. È un’esistenza sotto diktat biologici. È una sessualità che non è più scelta, ma funzione.
"Lui non ti guarda, e non lo guardi neanche tu." Lo sguardo manca. E nel cinema, come nella vita, lo sguardo è ciò che tiene insieme due persone. Alice e Niklas non si vedono più, non si riconoscono, non riescono nemmeno a sostenere quello che stanno facendo. Non c’è intimità, né contatto: c’è solo la necessità di portare avanti qualcosa che ormai è diventato un meccanismo. "E poi questa cazzo di fecondazione in vetro." Qui esplode il linguaggio. Il tono si sporca, si carica di rabbia, si fa lessico da strada.
È una scelta drammaturgica precisa: Alice non vuole più essere educata, non vuole più raccontare con garbo una sofferenza devastante. Parla di "siringoni", di "culi", di "mucche". Perché il corpo trattato come oggetto fa scattare una ribellione. Non è solo disagio: è vera e propria umiliazione. "Ti trattano come una mucca. Vogliono solo prendere i tuoi ovuli..." Il paragone con la mucca è crudele, volutamente animalesco. Serve a evidenziare quanto la medicalizzazione del corpo femminile possa diventare disumanizzante. Alice è una produttrice di ovuli, da mungere, da stimolare, da svuotare. E questa percezione è insostenibile. "A te piacerebbe essere stata concepita così?"
Domanda secca. Diretta. Quasi accusatoria. Alice sta mettendo in dubbio tutto: anche la legittimità del processo stesso. "Io questo non lo voglio più... A volte aspetto solo il giorno in cui avrò i miei 46 o 47 anni..." Alice non sogna più la maternità. Sogna il momento in cui non potrà più essere madre. Non desidera più ottenere qualcosa, ma liberarsi del desiderio stesso. Vuole la fine della lotta. La liberazione dal pensiero costante. L’oblio. "Mi doni i tuoi ovuli, per favore?" La chiusura è straniante, disturbante. Dopo tutto questo sfogo, arriva una domanda paradossale, quasi surreale. È sarcastica, ma non è uno scherzo. È il segno di quanto il desiderio si sia deformato. È una battuta che chiude un monologo con un colpo di lama: la rabbia ha ceduto il passo al cinismo.
Alice dice tutto quello che raramente si dice nei racconti sulla fertilità: la fatica, la perdita del desiderio, la vergogna, il corpo che non risponde, i rapporti svuotati, l’assurdità delle pratiche mediche che si insinuano nella quotidianità con violenza. È un atto di accusa, ma anche un grido d’aiuto. Ed è anche uno dei momenti in cui Lavinia Wilson riesce a restituire, con un’interpretazione asciutta e senza compiacimenti, tutta la disperazione di una donna che si sente usata, spinta oltre il limite, e che non sa più se quello che sta facendo ha ancora senso.
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