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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Cecilie arriva in uno dei passaggi chiave del film “Maybe Baby”, quando la leggerezza della commedia cede il passo a una dimensione più cruda e intima. È una scena che spoglia il personaggio dalla maschera di controllo e compostezza che ha mantenuto fino a quel momento. Cecilie non sta più solo affrontando lo scambio di embrioni o la tensione tra le coppie: qui si confronta con sé stessa. Con il proprio corpo, con il tempo che è passato, con la possibilità di non riuscire a diventare madre. E lo fa senza difese.
MINUTAGGIO: 1:30:00-1:31:00
RUOLO: Cecilie
ATTRICE: Mille Dinesen
DOVE: Netflix
ITALIANO
Prima di iniziare il trattamento di fertilità ero rimasta… incinta. Andres era al settimo cielo, ma… ma poi l’ho perso. Il medico disse… che era normale, che dovevamo riprovare. Poi ne ho perso un altro. E un altro. E un altro. L’ultima volta ero a metà. E non sono più rimasta incinta. Nessuno riusciva a dirmi cosa fosse andato storto. Ma è vero. Hai ragione. Sono un pò vecchia. Avrei dovuto iniziare molto prima. A volte penso solo che non merito di
Maybe Baby, una commedia danese del 2023 disponibile su Netflix, che usa l’umorismo per scavare dentro una questione delicata: cosa succede quando il desiderio di avere un figlio si scontra con il caos imprevedibile della realtà? Cecilie e Andreas sono una giovane coppia ordinata, affettuosa, con un’idea chiara su cosa significhi costruire una famiglia. Liv e Malte, dall’altro lato, sono meno convenzionali, più caotici, ma uniti da un affetto profondo e da un’energia quasi infantile. Entrambe le coppie si ritrovano nello stesso luogo, la clinica per la fertilità, spinte dallo stesso desiderio: diventare genitori.
Il punto di svolta arriva quando qualcosa va storto durante il processo di fecondazione: un errore burocratico, tecnico, o forse semplicemente umano, fa sì che gli embrioni vengano scambiati tra le due coppie. Ed è qui che inizia il cuore del film. Quello che potrebbe sembrare l’inizio di un dramma giudiziario prende invece la strada della commedia: una di quelle commedie dove i personaggi non sono mai macchiette, ma individui che si ritrovano a fare i conti con qualcosa di troppo grande, troppo assurdo, per essere affrontato senza riderci sopra almeno un po’.
Il film prende la situazione iniziale – lo scambio di embrioni – e la usa come lente per osservare da vicino quanto possa essere fragile e insieme potente il concetto di “famiglia”. I personaggi si trovano costretti a farsi domande che di solito si tengono lontane: Cosa significa davvero essere genitori? È il sangue che conta? O l’intenzione, l’impegno, l’amore? Le dinamiche tra le due coppie si complicano, perché la situazione costringe ognuno a guardarsi dentro. Cecilie si confronta con una visione quasi idealizzata della maternità, Andreas è costretto a ridefinire il proprio ruolo di uomo e futuro padre. Liv, più istintiva, più irruenta, si trova a proteggere qualcosa che non sa nemmeno se vuole davvero. Malte è quello che forse cresce più di tutti, costretto a passare da eterno “Peter Pan” a figura paterna in circostanze imprevedibili.
"Prima di iniziare il trattamento di fertilità ero rimasta… incinta. Andres era al settimo cielo, ma… ma poi l’ho perso." La frase è diretta, spogliata di retorica. Il silenzio tra le parole e le esitazioni ("...incinta", "...ma poi l’ho perso") fanno capire che non è la prima volta che Cecilie racconta questa storia — ma è forse la prima volta che la dice con piena onestà. Il dolore non è esibito, è trattenuto. Ed è proprio questo che lo rende potente. "Poi ne ho perso un altro. E un altro. E un altro." La ripetizione martella come una condanna. Non serve aggiungere altro. Cecilie non ha bisogno di descrivere ogni singolo aborto spontaneo: basta la serialità. È come se volesse dire “non è stato un trauma isolato, è stato un ciclo, un pattern che mi ha logorata”.
"L’ultima volta ero a metà. E non sono più rimasta incinta." “Ero a metà” è una frase devastante nella sua semplicità. È un punto di non ritorno, non solo biologico ma emotivo. Quel "non sono più rimasta incinta" segna la fine di una speranza costante, e l’inizio di un senso di colpa strisciante. "Nessuno riusciva a dirmi cosa fosse andato storto." Qui emerge un senso di impotenza quasi clinica. Il fatto che nemmeno i medici — i detentori della razionalità, della scienza — siano riusciti a darle una risposta, amplifica il dolore. L’assenza di una spiegazione razionale rende tutto ancora più insopportabile. "Ma è vero. Hai ragione. Sono un po’ vecchia. Avrei dovuto iniziare molto prima." In questa parte Cecilie interiorizza lo stigma, si colpevolizza. È una delle frasi più tristi del monologo perché mostra quanto la pressione sociale e culturale intorno all’età e alla maternità possa intaccare l’identità di una donna. Cecilie non sta più parlando come individuo, ma come donna giudicata secondo tempistiche e aspettative che non ha scelto.
"A volte penso solo che non merito di diventare madre." Ecco il colpo finale. Non è solo dolore fisico, non è solo perdita biologica: è anche un senso di indegnità. Cecilie arriva a mettere in discussione il proprio valore personale. Questo pensiero – "non merito di diventare madre" – è una lama che taglia tutto ciò che abbiamo visto finora. È la frase che ti fa capire perché Maybe Baby non è semplicemente una commedia.
Questo monologo è il cuore di Maybe Baby. In un film che gioca sul caos e sulle situazioni paradossali, questa scena ci riporta alla realtà più nuda. Non c'è musica di sottofondo, non ci sono effetti: solo parole e silenzi. Cecilie, in pochi secondi, ci racconta la pressione psicologica della fertilità, il lutto ripetuto, il senso di inadeguatezza, e il conflitto tra ciò che si desidera e ciò che sembra sfuggire ogni volta che ci si avvicina.
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